Marletta

Mi ero appassionato alle lezioni di attribuzione di Carlo del Bravo e grazie a quell’apertura di mente cominciai ad interessarmi di disegno, pittura e scultura...

di Marco Riccòmini

«Mandarino?», propongo. «Più mattone chiaro», risponde, Marletta. «Diciamo arancio con una punta di giallo», chioso. «Comunque è un colore sul quale risaltano bene le cornici, sia quelle dorate sia quelle scure, e anche le sculture», aggiunge lui, e ci troviamo d’accordo. Volte a crociera, parquet di legno nero, allestimento minimal, il fondo in fondo a via Maggio (si perdoni il gioco di parole) è al piano terreno di quel palazzo Ridolfi Guidi dove nacque il nonno di Alessandro, la cui bisnonna materna era, appunto, una Guidi. Il padre Giuseppe, invece, veniva da Catania e dalla Sicilia era arrivato a Firenze con in tasca il solo mestiere dell’ebanista. E, come spesso accade con chi lavora il legno, a quella della sgorbia affiancava l’occupazione, meno faticosa, del commercio dei mobili. Alessandro, quando capisce che quello degli arredi antichi è un mondo che sta scomparendo, almeno così come lo aveva conosciuto suo padre, mette tutto in asta e riparte da zero. «Beh, non proprio. Mi ero appassionato alle lezioni di attribuzione di Carlo del Bravo [che frequentai pure io, apprendendo nomi per me allora sconosciuti] e grazie a quell’apertura di mente cominciai ad interessarmi di disegno, pittura e scultura, specialmente d’epoca neoclassica. Tra i quadri che mi hanno dato maggior gioia c’è la monumentale Abiura di Galileo Galilei di Scipione Lodigiani, che acquistai disteso sul pavimento senza neppure il telaio e che vendetti in America. E poi un dipinto ottocentesco che ritraeva Fra’ Bartolomeo che dipinge la pala del Santuario che con mio padre vendemmo a palazzo Mansi a Lucca».