«L’uomo che viaggia e non conosce ancora la città che lo aspetta lungo la strada, si domanda come sarà la reggia, la caserma, il mulino, il teatro, il bazar», scriveva un fantasioso scrittore dai natali cubani. Una reggia non manca (detta, appunto, Palazzo Reale), di caserme vuote siamo pieni, di mulini (oltre a quello Dorino) v’è traccia lungo roggie e navigli, il teatro richiama aficionados da tutto il mondo. Del bazar (dal persiano bāzār, ossia «mercato», detto da queste parti anche bażżarro o persino bażżano, istruisce la Treccani), invece, si son perse le tracce. Attendiamo pazienti in coda sul polveroso ghiaino del Grand Palais l’apertura della “nuova” Biennale des Antiquaires («le rendez-vous superlatif», sottotitolava con enfasi una rivista patinata), per poi cuocere nel forno del suo meraviglioso jardin d’hiver. Ancora odorosi di naftalina, i nostri severi black ties luccicano nei saloni cupi e maestosi di Palazzo Venezia a Roma, e torneranno buoni anche per la kermesse lungo le rive dell’Arno.
Quando poi, passato l’inverno, le giornate cominceranno timidamente ad allungarsi e il freddo ad allentare la sua morsa, giungerà grave il richiamo da nord, come cupo squillo di corno che rimbomba giù per le valli e ti scova, anche quando vorresti fingere di non averlo udito. Toccherà, allora, il viaggio verso le terre piatte del Limburgo e i suoi cieli plumbei e sconfinati, perché a Maastricht bisogna andare. E così anche per Londra e per Nuova York (più volte all’anno, raccomanda il sollecito medico curante). E Milano, che fine ha fatto?