Tra i gorghi infiniti della storia dell’arte, accanto ai famigerati Leonardo, Tiziano e Caravaggio oramai sulla bocca di tutti, si annida sornione un drappello di artisti che in passato aveva goduto di una fetta affatto marginale di audience, tra specialisti, galleristi, collezionisti e appassionati di ogni genere e grado. Anche se oggi ai più dirà probabilmente ben poco, a occupare un posto di riguardo nell’hit parade 80’s c’era infatti la schiera dei cosiddetti anticlassici, quella compagine di pittori eccentrici e dai gusti spesso ponentini che in principio del Cinquecento aveva infiammato il Rinascimento lungo la Valle del Po, battendo le principali direttrici che dal nord della penisola conducevano fino ai grandi centri della pittura italiana.
Tolta la polvere da questi pregiati LP, per coloro che ne avessero memoria diventa allora naturale domandarsi che fine abbiano fatto artisti del calibro eccelso come Gianfrancesco Bembo e Altobello Melone, quel tandem tutto cremonese che a partire dal 1515 partecipò al ciclo di Storie della Vita della Vergine e della Passione di Cristo firmando sulle pareti del Duomo di Cremona, un vero e proprio manifesto del movimento anticlassico. Com’è possibile che maestri capaci di catturare per più di un secolo l’interesse di generazioni di conoscitori siano scomparsi sotto il naso di tutti senza lasciare la benché minima traccia? Per Bembo, elettrocardiogramma piatto: non un passaggio in asta dagli anni Settanta, quando da Finarte a Milano si materializzò come un’astronave aliena un Giovane dall’aria un po’ strafottente, ripartito altrettanto velocemente per lo spazio oscuro.
Se non fosse per l’intrigante Dama con barboncino rintracciata qualche anno fa da Maurizio Canesso, Gianfrancesco Bembo potrebbe insomma considerarsi una specie estinta più che un’entità in via di estinzione. Per Altobello, invece, la situazione appare diversa e le aste sembrerebbero dare l’impressione che ci sia ancora un margine di speranza. Ma è davvero così?
Come spesso accade l’apparenza inganna, infatti, mettendo a sistema le vendite degli ultimi decenni i risultati si prospettano per così dire “interessanti”. Districandosi tra copie e opere spurie, spicca una Madonna assegnabile alla prima maturità di Altobello, una tavola letteralmente vergine, inedita, elettrica e fascinosa, apparsa nel 2019 da Christie’s a Londra con una stima piuttosto contenuta considerata la rarità del pezzo (£ 40.000), complice forse anche lo stato di conservazione non perfettamente immacolato.
Morale della favola? Invenduta. Verrebbe da dire che, vista la specificità dell’argomento, i collezionisti preferiscano andare sul sicuro, accaparrandosi per cifre tutto sommato ragionevoli capolavori dotati di un proprio pedigree, come la caustica Adorazione del Bambino in antico in collezione Lechi a Brescia, o la magmatica Resurrezione di Cristo, scoperta nel 1950 da Luigi Grassi che l’ha resa nota nell’articolo fondativo per gli studi sul pittore.
Ma, anche in questo caso, siamo davvero sicuri? A svelare immediatamente le labili fondamenta di questo assunto si pone infatti un’altra Madonna, questa volta su tela, pubblicata settant’anni orsono da Ferdinando Bologna e riemersa a un’asta londinese di Sotheby’s nel 2006, dove è stata aggiudicata al minimum estimate (£ 80.000 equivalenti a circa € 120.000 col cambio di allora). Dopo quindici anni di villeggiatura presso l’Alana Collection a Newark, nello stato americano del New Jersey, nel 2021 il quadro è riapparso da Sotheby’s a New York, con una stima incredibilmente dimezzata (circa € 50.000). In neanche due decenni si è dunque assistito a una riduzione del valore dell’opera che non può essere semplicemente imputata a strategie di mercato. Anche perché, comunque la si voglia intendere, il risultato non lascia spazio a dubbi, dato che pure in questa circostanza ad aver avuto la meglio è stata la mannaia del bought-in, caduta inesorabile sul lotto.
A fronte di questa panoramica preoccupante si potrebbe pensare che siano i campioni dell’anticlassicismo ad aver perso quell’appeal che, al netto e a fronte della loro intrinseca rarità, gli studi e il mercato gli avevano riconosciuto nella seconda metà del secolo scorso. Eppure, il caso non può essere liquidato così, barricandosi dietro a un generalizzato cambio di percezioni e di gusto, addossando di conseguenza ogni responsabilità all’infiacchirsi del collezionismo. Lasciando sullo sfondo il caso di Dosso Dossi, fuoriclasse riconosciuto anche dai non specialisti dell’anticlassicismo spesso per contingenze legate alla provenienza prestigiosa dei suoi capolavori, per rendersene conto basta chiamare alla sbarra l’altro grande protagonista di questa stagione figurativa, ovvero il bresciano Girolamo Romani, meglio noto con lo pseudonimo di Romanino. È sufficiente limitarsi al biennio 2023-2024 ormai prossimo alla chiusura per capire infatti come sul versante romaniniano la musica sia ben diversa rispetto alla situazione che interessa Bembo e Altobello. Lo certificano due opere inedite, quali la tarda, suggestiva Deposizione battuta da Bertolami, a Roma, per mezzo milione di euro (spese incluse) e il giovanile, graffiante Cristo patiens proposto da Matteo Lampertico all’ultima Biennale di Antiquariato di Firenze; per non parlare del grande ritorno rappresentato dal Buon samaritano già nella collezione romana di Pietro Toesca, recentemente acquistato dalla Fondazione Tassara per il MITA, il Museo Internazionale del Tappeto di Brescia.
Novità e riscoperte che non vanno lette alla stregua di un’eccezione alla regola, bensì come cartina di tornasole di un’attenzione mai sopita per il panorama della pittura del Cinquecento bresciano. Un’attenzione figlia anzitutto di una lodevole politica di promozione e valorizzazione culturale, tramandata negli anni, che ha saputo riconoscere ai beniamini del Rinascimento a Brescia il ruolo di testimoni di un’identità collettiva, investendo controcorrente nelle ricerche sugli old masters. Parlano da sole le rassegne allestite dal 2000 in avanti nella città della Leonessa: mostre capaci di illustrare al pubblico artisti e congiunture tangenti, ma al tempo stesso diversificati, passando da Vincenzo Foppa (2002) a Girolamo Romanino (2006), da Tiziano (2018) a Lattanzio Gambara (2021), sino ad arrivare a ricostruire specifici contesti sociali, ragionando come davanti a un fermo immagine attorno a un solo personaggio. Ne è un ottimo esempio la rassegna ora in corso negli spazi del Museo di Santa Giulia: un’esposizione raffinata confezionata intorno alla figura di Fortunato Martinengo, immortalato da Alessandro Bonvicino detto il Moretto nel meraviglioso ritratto concesso in prestito dalla National Gallery di Londra.
E a Cremona invece? Come da migliore tradizione si brancola nella nebbia. Nonostante il progredire delle ricerche, da un punto di vista espositivo tutto è ancora fermo alla mostra del 1985 dedicata ai Campi e alla cultura artistica del Cinquecento cremonese; un’evidenza nota a tutti, che non ha bisogno di ulteriori commenti. Posto che a una domanda corrisponde un’offerta, è altrettanto vero che le domande possono essere stimolate se non orientate, come dimostrato – che ci piaccia o no – dai nostri beneamati influencers. Non va allora dimenticato che ogni forma di interesse, economico o culturale che dir si voglia, può essere sollecitato e incentivato attraverso politiche culturali che accolgano, promuovano e sostengano momenti di ricerca e valorizzazione, di divulgazione e presentazione del nostro patrimonio. Anche nel terzo millennio, infatti, pur dinanzi al dilagare della tecnologia e dell’intelligenza artificiale, è ancora possibile lavorare in questo senso, operando di concerto: da un lato gli studiosi e le università, dall’altro gli enti e le istituzioni, da un altro ancora il collezionismo e il mondo del mercato. Diversi attori, tutti orientati, pur ovviamente con finalità e intenzioni differenti, verso un obiettivo comune.
Occorre insomma che i riflettori vengano riaccesi sull’anticlassicismo attraverso un’aggiornata class action. Solo così sarà possibile facilitare la messa a fuoco di nuove occasioni funzionali ad accompagnare la riabilitazione di questi dimenticati protagonisti della pittura in Valpadana. Chissà che non possa essere la volta buona per tornare a vederli occupare le prime posizioni nelle classifiche internazionali. È da troppo tempo che Altobello Melone e Gianfrancesco Bembo vagano indisturbati per le lande vaste e desolate della savana padana, ridotti al ruolo di carneadi, quasi fossero due camei non accreditati di un film muto d’inizio Novecento. È arrivato il momento di scardinare una volta per tutte i cancelli arrugginiti di questo capitolo della storia dell’arte per restituire agli anticlassici la dignità che meritano. Che il safari abbia inizio.