Anche un gesso di Canova può essere malato di burocrazia. Come i malati vivi, ai quali l’ottanta per cento dei medici non riesce a dedicare il tempo necessario perché costretti a far fronte a procedure di lunghezza e farraginosità inverosimile secondo una recente ricerca di Datanalysis. Come le imprese impossibilitate a lavorare con gli enti pubblici o ad accedere a finanziamenti perché prive di certificati antimafia che possono farsi attendere anche per sei mesi. Anche un busto che non parte per una fiera e una mostra internazionale perché privo del nulla osta, di una mancata notifica, della manleva dello stato sulla prelazione al suo possesso o alla sua permanenza nello stato italiano, inutilmente atteso per tre mesi quando il limite per la concessione dovrebbe essere di quaranta giorni, è uno dei tanti piccoli e grandi danni che la burocrazia causa all’Italia. L’Italia che danneggia se stessa, impedendosi di uscire dalla crisi, avviluppata in un vortice pressoché inestricabile di carte, bolli, file, attese, sistemi informatici che non riescono a dialogare fra di loro. In Italia, non solo a un’impresa edile che deve costruire una scuola, ma anche a un mercante d’arte può capitare di aspettare oltre il limite massimo dell’interesse economico e culturale ad agire la visita di un tecnico ministeriale, affrontando anche le spese di trasporto e imballaggio, e non ricevere in tempo il foglio che gli permetterà di portare all’estero quella o quelle opere, o di riceverlo all’ultimo minuto, perdendo dunque opportunità preziose di lavoro in una congiuntura che vede nelle vendite all’estero l’unico, reale sbocco per il settore.
Pur migliorando, come necessario e positivamente, il rapporto fra pubblico e privato in materia di tutela e conservazione dei beni artistici, il Decreto Cultura e l’ArtBonus approvati lo scorso 30 ottobre non ha infatti minimamente accelerato il processo che regola la movimentazione extramoenia delle opere d’arte antiquariale destinate all’esposizione e alla vendita. E dire che potrebbe andare benissimo, perché il boom del contemporaneo non ha affatto sostituito l’interesse per l’antico. Anzi. Dopo un’iniziale e apparente infedeltà a favore di nomi e tendenze nuove, collezionisti, investitori e appassionati sono infatti tornati ad avvicinarsi alle opere d’arte antica, ponendo come unica discriminante l’altissima qualità. Dal 2001 ad oggi, il comparto degli Old Masters è cresciuto del 157,5% a valori omogenei (dati Artsere 2014). L’antiquariato italiano, a dispetto di una crisi sempre più concentrata sul solo mercato interno e di una frammentarietà nelle politiche e nelle strategie di settore messa in luce anche dall’ultimo rapporto Nomisma e che, di certo, andrebbe risolta, potrebbe però e dunque tornare a brillare. A Parma, per esempio, si è chiusa da poco con soddisfazione di molti espositori la fiera Gotha, sebbene il vero segnale della ripresa sia arrivato alla metà di novembre dalla quarta edizione di Paris Tableau, che ha registrato in quattro giorni un flusso pari a 6.500 visitatori, di cui una parte, molto significativa, di importanti curatori museali e di istituzioni come il Kimbell Museum di Fort Worth, la Washington National Gallery, il museo di Montreal e di Ottawa, la National Gallery di Londra, il Prado e il Louvre.
Una rete di milioni di persone. Che contribuisce alla salvaguardia delle città
Si muove il mercato delle grandi acquisizioni, dunque, tornando ad interessare gli antiquari di tutto il mondo e dell’Italia, ai primissimi posti in questa fitta rete di rapporti e scambi culturali e all’origine di un indotto stratificato e ramificato che coinvolge decine di migliaia di professionisti: mercanti, certo, nel senso più antico e più nobile del termine, ma anche restauratori, artigiani della tappezzeria, dei vetri e dell’oreficeria, e un terziario importante nell’organizzazione di mostre, fiere, eventi. In Italia sono attive oltre trenta case d’asta, 100 mostre di antiquariato, circa 500 fra mercatini e fiere, migliaia di galleristi, antiquari, raccoglitori, restauratori, critici, storici, esperti o simili a vario titolo. Da una indagine interna dell’Associazione Antiquari Italiani fra i suoi associati, circa centoquaranta fra i nomi più prestigiosi del settore sulle 2648 imprese registrate da Confcommercio nel 2011 a dati Istat per un giro d’affari complessivo stimabile fra i sette e i dieci miliardi di euro, emerge infatti che il venti per cento circa del loro fatturato è destinato al restauro delle opere e dei beni che verranno messi in vendita, ma che oltre il quaranta per cento del fatturato è destinato ad attività di pubbliche relazioni, delle quali la partecipazione a mostre ed esposizioni internazionali è di gran lunga la voce più significativa.
Dunque restauro, conservazione, dunque trasporti, dunque cataloghi, dunque comunicazione, pubbliche relazioni, viaggi. Un settore complesso, e complessivo, di un indotto che, secondo un rapporto Nomisma del 2007, toccava addirittura circa 16 milioni di persone: un quinto della popolazione italiana, in maniera diretta o indiretta, verrebbe dunque coinvolta nelle attività legate al mercato dell’arte. E questo senza contare il riflesso delle iniziative legate al mercato dell’arte sulla struttura e la stessa conservazione delle città e dei borghi italiani, un fenomeno del tutto trascurato ma fondamentale per il Paese: la presenza in ogni città d’arte italiana di negozi di antiquari e botteghe artigiane di restauro che si collocano nei centri storici, è determinante per mantenerne viva la fisionomia contro nuove attività avulse dal contesto delle tradizioni cittadine e dagli stessi residenti. Nei centri storici dove sono presenti gli antiquari, le attività di tappezzieri, ebanisti, corniciai, argentieri, persino calzolai, resistono più a lungo, trovano l’humus necessario per non cedere all’ennesima catena di abbigliamento intimo a buon mercato, all’ennesima pizzeria al taglio. Il mercato dell’arte, inoltre, non riguarda solo gli antiquari e i collezionisti. Riguarda tutti i cittadini italiani, e l’aumento esponenziale di mercatini di brocantage, pur nella loro ingenuità, ne è la prova; se lo stato italiano si vanta, a buon diritto, di possedere da solo oltre la metà del patrimonio artistico dell’intero pianeta, è anche vero che la maggioranza delle famiglie italiane è custode e proprietarie di opere, antiche, moderne e contemporanee, più o meno importanti, che vanno da quadri e sculture a mobili, tappeti, argenti, porcellane e maioliche, libri, e che non di rado è tentata, complice la crisi, di far fruttare questo patrimonio mettendolo in vendita.
C’è bisogno di commerciare, e c’è bisogno di norme che favoriscano questo commercio e non lo inibiscano. E invece, anno dopo anno, legge dopo legge, si ritorna sempre allo stesso punto: a un mercato interno soffocato e dalla crisi e dalla sovrabbondanza di offerta, impossibilitato ad avvalersi come potrebbe delle opportunità offerte dai mercati esteri a causa di una legislazione che mette lo stato nella posizione di un acquirente privilegiato che, dopo lungo tentennare e tergiversare, non compra nulla. Il castellano riluttante di uno jus primae noctis che non intende esercitare. Eppure, e nonostante questo, l’interesse per le opere del mercato italiano aumenta. Uno dei maggiori operatori nazionali del trasporto beni preziosi, Apice (suo, per esempio, il trasporto dei quadri di Segantini per la mostra in corso a Palazzo Reale a Milano, ma anche della mostra itinerante dedicata al complesso rapporto fra Frida Kahlo e Diego Rivera, e non è raro nemmeno trovarlo fra gli sponsor tecnici di iniziative di elevato contenuto culturale) segnala non a caso di aver dovuto potenziare negli ultimi anni i propri magazzini attorno all’aeroporto di Linate, ora estesi su una superficie di tremila metri quadrati, per far fronte alle maggiori richieste di import-export di oggetti preziosi destinati alle mostre o alla vendita: “L’arte antica sta recuperando”, dice Fabiano Panzironi, a capo della logistica della società, evidenziando una ripartizione ormai quasi egualitaria, nell’ordine del 60-40, fra mercato del contemporaneo e dell’antico.
Un network vivace, dunque, quello dell’antiquariato, ma che sconta appunto una burocrazia pesante, all’origine di rallentamenti e di blocchi nei normali processi di trasporto ed esposizione. Cioè, di opportunità di lavoro sia diretto sia indiretto. Gli antiquari italiani guidati da Carlo Orsi, denunciano una situazione di disagio crescente, causata da una realtà burocratica e amministrativa complessa e restrittiva al punto di risultare invalidante: talvolta oltre tre mesi di attesa per ottenere la sola visita necessaria al rilascio del nulla osta all’export quando la normativa (articolo 68 comma 7 del dl 42/2004) impone un massimo di quaranta giorni e quando, nel settore dei beni pubblici e nello scambio museale, il rilascio avviene normalmente entro venti giorni. Tempistiche come queste, è ovvio, finiscono per pregiudicare le normali attività imprenditoriali e, di conseguenza, dell’indotto artigiano e del terziario, procurando un danno non solo in termini economici, ma anche di competitività del settore a livello internazionale che, se i mercanti d’arte italiani non hanno mai quantificato, potrebbe però presentare profili di illegittimità tali da costituire materia per un ricorso in sede europea. Secondo quanto afferma Orsi, “a causa di questi ritardi, che si sommano ai costi di trasporto dei pezzi per la verifica, corriamo costantemente il rischio di perdere opportunità preziose per il nostro lavoro”.
Non sempre, anzi quasi mai, si tratta di cattiva volontà da parte dei tecnici del MiBACT. La verità è che a fronte di una aumentata mobilità di opere, dunque di una maggiore richiesta di concessioni e di nulla osta, non ha fatto da contraltare lo snellimento delle procedure più volte richiesto dagli stessi dipendenti del ministero, per loro stessa ammissione più interessati a fare ricerca e a sviluppare progetti che a smaltire una media di sette pratiche al giorno. Per un operatore privato, movimentare un’opera comporta tempi fino a sei volte più lunghi rispetto a quelli riservati al direttore di un museo o di un’istituzione e sebbene, come segnala Orsi, sia giusto che vengano effettuati controlli rigorosi su beni destinati all’esposizione e alla potenziale vendita (“la tutela è importante innanzitutto per noi”), questo maggiore rigore non può in nessun caso danneggiare una attività imprenditoriale e commerciale. Maurizio Anastasi, direttore area tecnica della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, suggerisce un tavolo di trattativa che equipari le tempistiche riservate agli operatori del mercato con quelle normalmente applicate ad iniziative del Ministero dei Beni Culturali, ma in realtà il direttore della Fondazione Musei Civici di Venezia, Gabriella Belli, denuncia lei stessa certe farraginosità procedurali comuni ad enti pubblici e ad operatori privati, non ultimi i tempi di spostamento di opere d’arte addirittura da un piano all’altro del museo, e perfino chi scrive potrebbe affermare di avere portato al pianterreno un quadro per l’inaugurazione di una mostra in un museo milanese e di averlo riportato al piano superiore al termine del cocktail perché in attesa del beneplacito di un addetto della Sovrintendenza che avrebbe poi impiegato una settimana per effettuare un tragitto di un chilometro.
Tutto per spostare un quadro da un piano all’altro dello stesso museo per un mese. “Qualunque semplice operazione comporta un impiego di tempo e di risorse infinito” lamenta Marina Messina, già direttore del Polo Musei Storici e Musei Archeologici di Milano, ora dirigente del settore spettacolo, che nei mesi scorsi ha favorito un’iniziativa ministeriale molto gradita al pubblico, e cioè l’apertura dei depositi museali, che però, sottolinea, “comportano un’attività di supporto che molti musei non sono in grado di fornire, in quanto privi delle risorse necessarie, ma anche di un personale formato”. D’altronde, dal 2008 gli enti pubblici sono “fermi”, come lamenta anche Panzironi: non solo non acquistano opere, ma non formano personale, e questo a dispetto di chi continua a ritenere il patrimonio artistico, la sua tutela e la sua diffusione “il petrolio dell’Italia”. “Visto il livello di attenzione nei confronti dei beni d’arte residenti nel nostro paese”, dice Panzironi, “anche le dogane si gioverebbero di addetti capaci di distinguere fra epoche e scuole”. E invece, chi studia anni per diventare storico dell’arte o conservatore di beni culturali resta a lungo senza lavoro o precario. Insomma, troppa burocrazia per tutti.
E questo avviene quando, finalmente, inizierebbero a tornare le condizioni favorevoli per una ripresa del mercato e per l’attivazione di un circuito virtuoso che offra nuove opportunità di lavoro non solo ai commercianti ma anche ai giovani artigiani – restauratori che, come sottolinea Belli, sono tuttora i migliori del mondo ma che, secondo quanto fa notare il consigliere dell’Associazione Restauratori d’Italia, Kristian Schneider, a cui aderiscono soprattutto artigiani attivi nelle commesse pubbliche, dipendono a loro volta dalle stesse lungaggini, oltre che da un progressivo assottigliarsi del lavoro. Per questo, la vivacità del settore privato, e in particolare delle gallerie d’arte, che sempre secondo il rapporto Nomisma 2013 rappresentano il “principale canale di vendita a discapito delle case d’asta con una quota di mercato che nell’ultimo quadriennio è passata dal 58,84 al 72,96%”, è uno stimolo e un’opportunità importante anche per tenere viva e rafforzare l’attenzione del grande pubblico sul valore estetico, storico e, perché no, anche economico dell’arte. Gli antiquari, “espressione legale del commercio dell’arte attraverso il quale si formano i nuovi collezionisti”, sono fra i più attivi sostenitori di restauri pubblici, e proprio in occasione dell’ultima Biennale Internazionale, a Roma, hanno annunciato il recupero e il restauro di una delle opere conservate a Palazzo Venezia, sede dell’esposizione: un olio su tavola, il “Compianto di Cristo Morto e Donatori” di Giovan Francesco Maineri.
La congiuntura: mercato internazionale in crescita. E l’Italia ancora importante
I dati relativi al comparto su scala mondiale sono dunque più che incoraggianti. Secondo l’annuale report stilato da un gruppo di assicuratori specializzati guidati da Pietro Ripa, e circolante solo fra i maggiori operatori del mercato, il 2013 è stato un anno di “assoluta ripresa” del mercato dell’arte, sia sul fronte delle aste, dove va segnalata per esempio l’apertura di Christie’s a Shanghai e Mumbai e di Sotheby’s a BeiJing, sia su quello delle fiere, dove contemporaneo e dipinti antichi hanno ottenuto entrambi risultati brillanti. Dal mercato delle fiere, in particolare, (cioè proprio quello nel quale gli antiquari italiani vorrebbero garantirsi maggiore rapidità di scelta, adesione e presenza) partono e si delineano con sempre maggiore evidenza le tendenze, nonché lo stesso sviluppo del mercato delle aste. Le mostre internazionali, aperte agli operatori del mercato antiquario e contemporaneo più prestigiosi, ai loro clienti effettivi o ipotetici e ai tanti appassionati, sono dunque le occasioni grazie alle quali il mercato viene orientato nel suo complesso. Circa un terzo delle vendite del mercato primario vengono realizzate infatti tramite fiere locali o internazionali; le vendite private sono state invece pari a 22 miliardi di dollari nel 2012 (rapporto Tefaf 2012). In questo panorama in evoluzione, gli Usa hanno riconquistato la leadership dei “super ricchi” con 3,7 milioni di top spenders, seguito a stretta distanza dall’area asiatica (3,6 milioni) che mantiene tuttavia tassi di crescita superiori e dall’Europa.
Ma essere ricchi non basta: alla disponibilità deve far seguito, o avvenire parallelamente, anche il processo di culturalizzazione necessario a rendere l’arte un bene interessante per il gusto e il piacere personali, e non solo a fini economici e di investimento. Per questo, nonostante la crisi che attanaglia alcuni fra gli stati che ne fanno parte, l’Europa continua a mantenere una posizione di primo piano nella ricerca e nell’acquisto di beni artistici, e l’Italia in particolare. Nella classifica dei «super ricchi», la penisola si colloca infatti al decimo posto con 176mila top spender e una ricchezza stimata pari a 336 miliardi di dollari, oltre 400 miliardi di euro: alla contrazione del PIL, come da storiche teorie economiche, ha fatto da contraltare l’aumento del numero di «super-ricchi». Nonostante questo, però, il ruolo del mercato dell’arte tende a ridursi in misura sempre maggiore, a causa della centralizzazione degli eventi clou in città di rilievo mondiale, hub dalle mille opportunità anche di intrattenimento come New York e Londra. E questo è sicuramente un motivo in più perché i mercanti d’arte italiani abbiano la possibilità di esportare e rendere visibili le opere di cui dispongono.
Fonti consultate
Per gli studi e i dati ARI – Associazione Restauratori Italiani, Associazione Antiquari d’Italia, Camera di Commercio di Milano, Confcommercio, Fima, Nomisma, Sose
Per le dichiarazioni e le valutazioni architetto Maurizio Anastasi – Sovrintendenza Beni Capitolini, dottoressa Gabriella Belli – Muve, Venezia, dottoressa Marina Messina – Direzione Cultura Comune Milano, dottoressa Enrica Pagella – Palazzo Madama, Torino, signor Fabiano Panzironi – Apice, Milano, dottor Pietro Ripa