Arriverà mai il giorno in cui s’inventerà un apparecchio capace di sciogliere il quesito attributivo su alcuni quadri antichi? Una lampada che, puntata sopra una tela, decreterà sul display il nome del suo autore magari pronunciandolo con voce metallica, come un navigatore? Mi viene in mente Le joueur d’échecs di Raymond Bernard (1927), con l’automa androide di Von Kempelen imbattibile al gioco, perché al suo interno nascondeva il conte polacco Boleslas Vorowski, maestro di scacchi. Nell’epoca delle autodiagnosi online (chiedete a un medico vero), non mancano neppure gli imbonitori che sul web offrono “valutazioni gratis”. Le caselle dei “symptom checker” saranno in questo caso quelle della dimensione, della tecnica dell’opera e del coefficiente attribuito al suo artista.
Altrettanto seriosamente, in certune aule universitarie slides con grafici e torte multicolori diventano il verbo sull’economia dell’arte contemporanea. Come se la fêlure di una porcellana, un’etichetta al retro di un telaio, un concetto spaziale anziché un Cristo in croce, non bastasse a mutarne anche enormemente il valore venale. Come districarsi, allora, tra tante possibili strade, per arrivare ad una approssimata verità? Sorridendo, verrebbe da pensare che, in attesa di sensazionali ritrovati della scienza e della tecnica, la soluzione la offra ancora il barone Von Kempelen: usare la testa. Non la propria, sia inteso: ma quella d’un esperto, l’unico strumento di qualche affidabilità di fronte all’unicità di un’opera d’arte.