Fabio Massimo Megna

Un antiquario dal gusto garbato

di Marco Riccòmini

Come il velluto rosso alle pareti della galleria, la scala che sale d’un piano con lo scivolo del corrimano in lucido ottone; sopra, libri ammassati su un tavolo, mai il tempo di ordinarli. Come la vetrina, che affaccia su via del Babuino, e che ancora resiste alla vague de la mode che ha cancellato quelle degli altri antiquari, una dopo l’altra, castelli di sabbia collassati sul bagnasciuga, e già dimenticati (e vai a raccontare chi saliva e scendeva quelle scale a chi ora, attraverso le vetrine, vede solo borse e manichini). Era come le sue sottili cravatte di maglia, color caffelatte, rosso ciliegia, verde muschio, comprate in negozi spariti da tempo, e che ogni volta gli invidiavo. Come la sua casa sopra il negozio, dalle pareti foderate di paesaggi del Van Bloemen (ma con le figure di Batoni), di coppie di vedutine in pendant del Van Lint, degli Anesi, dei Busiri, di qualche Bambocciante di cui, adesso, mi sfugge il nome ma che Fabio Massimo conosceva bene. Era come le sue cose, o le sue cose erano come lui. Avevano come il sapore di essere state sempre così, di quel gusto garbato e un po’ antiquato di un tempo trascorso e che non ritorna. Come gli aneddoti che raccontava di quando, da ragazzo, accompagnava il padre da Briganti, perché il suo era mestiere di famiglia e Tommaso, suo figlio, non hai mai pensato di fare altro nella vita. Era così Fabio Massimo Megna. E ora che se ne è andato, se n’è andato un pezzo di storia del nostro mestiere.