EUROPA 1600 – 1815

Risplende il V&A

di Leonardo Piccinini, foto Ottavia Casagrande

In sette grandi sale si concentra la storia d’Europa. Londra, Victoria and Albert Museum, corazzata vittoriana traghettata nel Ventunesimo secolo grazie ad un ambizioso (già nel nome, FuturePlan) programma di restyling che terminerà nel 2017 con la nuova area espositiva su Exhibition Road. Dopo sei anni di lavori e ben diciotto milioni spesi, lo scorso 9 dicembre sono state presentate le nuove galleries dedicate all’Europa dal ‘600 all’età napoleonica. Europa continentale, è bene precisarlo: non c’entrano le tensioni di questi mesi né la temuta Brexit, ma semplicemente la gioiosa autonomia che alle testimonianze di casa il V&A riserva in un'altra sezione, le British Galleries. Niente da fare, secoli di Grand Tour, chili di pubblicazioni su palladianesimo, Robert Adam a Ercolano e Spalato e camini piranesiani in ogni angolo di countryside non scalfiscono minimamente l’orgoglio patrio, neppure nelle arti visive. Eppure il legame degli oggetti e opere esposte con la storia e la tradizione britannica è enorme, a cominciare dal servizio in argento (che chiude cronologicamente il percorso) dedicato dal Portogallo al duque da Vitòria (titolo orgogliosamente ancor oggi portato dai discendenti) o duca di Wellington per la liberazione da Napoleone: il ducale blasone campeggia su ogni piatto o zuppiera, appesi in sospensione (geniale!) come nel più scintillante dei trofei. Qua e là infatti l’ordinato ma scenografico allestimento dello studio londinese ZMMA concede pause di grande effetto, come la fontana in porcellana bianca di Meissen, esposta per la prima volta nella storia del Museo, composta di 150 pezzi, tra le migliori testimonianze della corte di Dresda, insieme al coevo (1750) trumeau di sfrenato lusso per lo Schloss Hubertusburg, il più fastoso padiglione di caccia dell’Europa di allora. E, tra un pensiero riconoscente al civil servant Pope-Hennessy che assicurò al V&A alcuni tra i più bei nomi della scultura italiana (basti pensare ai magnifici bronzi di Soldani Benzi), uno sguardo alle drammatiche cere del siciliano Zumbo, un ricordo dell’illuminismo con Houdon e l’Encyclopédie, non si può non sottolineare che tutto quanto esposto è il più glorioso ed efficace omaggio al mercato d’arte di ieri (la vendita Gigli Campana, 1860, ai tempi del primo direttore Henry Cole) e di oggi (il Medal Cabinet retour d’Égypte di Biennais, Sotheby’s 2013). Un museo fondato non su collezioni dinastiche o d’ambito religioso ma costruito con antiquari e case d’asta, con la dispersione del goût Rothschild di Mentmore Towers del ’77 e l’ultimo, clamoroso acquisto (pubblicizzato sui manifesti della riapertura) a Maastricht di un dipinto, raffigurante la visita di Luigi XIV al castello di Juvisy, la cui corretta identificazione si deve solo all’occhio e alla tenacia di Alan Rubin.