I picchiotti Cesati nel Labirinto della Masone

La collezione di battenti di Alessandro Cesati si svela al Labirinto della Masone di Franco Maria Ricci, dove perdersi è un modo per ritrovarsi.

di Marta Galli

Sebbene non sia semplice risalire alle origini della passione collezionistica della famiglia Cesati, l’istinto del connoisseur e la frequentazione delle arti ne distingue la discendenza da sempre. Solo per venire a tempi recenti, Alessandro Cesati ricorda un bisnonno avvocato che nei primi del Novecento partecipa attivamente alla vita culturale milanese ed è amico di Medardo Rosso, un nonno direttore d’orchestra, e suo padre, che già in giovane età si interessa di arte e mercato.

Fatalmente, questa «fascinazione per l’arte in tutte le sue forme», negli anni Ottanta, trova sbocco nel commercio antiquario, che ha permesso a lui e al padre Fiorenzo di alzare l’asticella. «Mentre il collezionista a un certo punto è costretto a fermarsi, vuoi per ragioni di spazio, vuoi per ragioni economiche, fare l’antiquario consente di continuare a collezionare a un livello sempre più alto» dice Cesati. Del resto, così come esistono i collezionisti-mercanti (più diffusi nel mondo del contemporaneo, per la verità), esistono i mercanti-collezionisti – ma Cesati non a caso usa la parola “antiquario”, sottolineando il coté culturale: «Ci consideriamo tali nella misura in cui c’è piaciuto – a me in particolare – studiare, approfondire, classificare».

Northern Italy, Dragon with webbed feet and arrow-shaped tail, XVIII century, forged, carved and engraved iron, cm.18 x 5 x 7.5. Installation view, Knock Knock Knock. Iron guardians from the Cesati collection, Labirinto della Masone.

Milanesi da 500 anni, incidentalmente attorno alla metà del secolo scorso si trovano a Bergamo – «estremo lembo occidentale della Repubblica di Venezia» – dove, a due passi dall’Accademia Carrara, opera Mauro Pelliccioli, il più grande dei restauratori dell’epoca. «E mi piace raccontare questo aneddoto: quando, un certo giorno, a Federico Zeri chiesero chi potesse fregiarsi del nome di antiquario in Italia, lui rispose: “Che possono vantarsi di essere tali? Lorenzelli a Bergamo e Apolloni a Roma; il resto, non conosco”».

È qui che, ancora ragazzo, Fiorenzo Cesati s’invaghisce dei picchiotti adocchiati sulle antiche porte passeggiando per le vie della Città Alta. Il primo pezzo acquisito negli anni Settanta, l’ultimo pochi anni fa: una raccolta di 300 esemplari, di cui 65 sono ora visibili nella mostra Knock Knock Knock. Guardiani di ferro della collezione Cesati, al Labirinto della Masone (Fontanellato).

Installation view, Knock Knock Knock. Iron guardians from the Cesati collection, Labirinto della Masone.
Cesati
Southern Germany, Green man, first half of the XVII century, forged, carved and engraved iron, cm. 15.5 x 5.5 x 10.

Motivi vegetali, figure antropomorfe e poi serpenti, draghi, pesci, cani. Entra in scena un bestiario che travasa dal mondo precristiano al Medioevo: epoca in cui si cominciano a fabbricare i primi battenti in foggia complessa, grazie alle conoscenze acquisite nella lavorazione del ferro.

Alcuni dei pezzi esposti vantano – fatto del tutto eccezionale in questo tipo di oggetti – un’illustre provenienza. Dispersi all’asta sessant’anni fa, facevano parte della collezione realizzata dai Mylius, industriali alsaziani trasferitisi in Lombardia nell’Ottocento. «Il capostipite, Enrico, aveva commissionato ad Hayez una versione del famoso bacio. Due nipoti – combinazione: padre e figlio – s’impallinano invece per il ferro e mettono assieme una delle più mirabolanti collezioni di picchiotti da porta di sempre». Nel 1905 pubblicano un volume in foglio in edizione limitata di 100 esemplari che presenta 150 picchiotti in ferro e 150 in bronzo. «È un rarissimo caso in cui il ferro ha un pedigree di oltre 100 anni. Si vedono le foto del loro villino a Sesto San Giovanni con una parete tappezzata di battenti, assieme poi a un dipinto rinascimentale, maioliche, cineserie: quindi il ferro considerato degno di accompagnarsi a opere convenzionalmente ritenute maggiori».

In the centre: Winged dragon with flower tail, Northern Italy, XVII century, forged, carved and engraved iron, cm. 22 x 6 x 13.5. Installation view, Knock Knock Knock. Iron guardians from the Cesati collection, Labirinto della Masone.

Un atteggiamento pionieristico e d’altra parte il prodotto di una cultura nordica, diffusa tra Francia e Germania, dove inevitabilmente si collocano i principali musei dedicati a quelle tradizionalmente dette “arti applicate,” ovvero i musei artistici-industriali. «Ma è indubbio» commenta Cesati «che dietro la fabbricazione di questi oggetti, peraltro indistinguibili da piccole sculture a un occhio non esperto, ci fosse un’intenzionalità artistica; naturalmente bisogna vedere il livello di qualità – tuttavia, sento dire che nel mondo anglosassone la distinzione tra arte e arti applicate va progressivamente e giustamente scomparendo».

Come certe distinzioni siano più convenzionali che fattuali lo dimostra un altro aneddoto riferito da Cesati. Nel 1650, Luigi XIV sente la necessità di ridefinire la graduatoria delle arti: pittura, scultura, architettura. E il ferro: la quarta arte è la ferronerie. Ed è così che si scatena, dalla metà del Seicento fino ai primi dell’Ottocento, una vera e propria mania: «Tutti i nobili vogliono avere dei ferri belli; i più ardimentosi si divertono persino a forgiarli con le proprie mani – gli stessi re di Francia sono degli hobbisti del ferro».

All’ampia genia di manufatti di ferro e ai loro esempi storici più pregiati, nel 1991 i Cesati assieme a Lorenzelli a Bergamo – che era riuscito dal canto suo ad accaparrarsi un congruo numero di pezzi usciti dalla collezione Mylius all’epoca della dispersione – dedicano la mostra “Ferro Civile”.

Cesati
Northern Italy, Reptile with open mouth and protruding tongue, XVI century, forged, carved and engraved iron, cm. 20 x 2 x 7.

«È una ricerca forsennata e profonda sui materiali. Vede, io e mio padre ci siamo confrontati spesso con gli storici dell’arte. E bene, nove su dieci sono bravissimi nell’interpretazione stilistica, ma possono prendere comunque degli abbagli, perché se uno non conosce la materia, il materiale, non ce la fa… non basta lo stile per determinare l’epoca di un oggetto. Bisogna sapere di usure, ossidazioni, consunzioni, di modi d’incidere. E questo s’impara solo vedendo molto».

Ora, cos’è “il peccato originale” dei ferri, dei vetri, dei legni e di tante produzioni affini? Si chiede ancora Cesati. «Che non esistono nomi e cognomi, tutt’al più delle sigle, ma gli artefici sono artigiani di cui non si troverà mai una biografia. Il collezionismo oggi insegue il nome: artisti di cui esistono i cataloghi ragionati, di cui si sa tutto e con cui, per così dire, non si rischia niente».

Perché sullo sfondo s’è insediata, ammette a malincuore, la convinzione che l’arte possa costituire un investimento. «Da 30 o 40 anni ormai, gli americani hanno inculcato l’idea che si debba, se non fare un affare, almeno investire bene. Ma cosa vuol dire investire bene? Come se un’opera d’arte fosse un titolo di borsa o un fondo azionario… il valore di queste cose dovrebbe essere innanzitutto, io credo, il piacere di avercele a casa».

Cosa interessa invece ad Alessandro Cesati? «A me interessa la qualità: vale a dire la cosa che mi sorprende, che non ho mai visto. O che ho anche visto, in un museo, e che quindi è oggettivamente rara. Trovarne una sul mercato m’intriga».

E poi c’è sempre il sogno di riattribuire un oggetto – il piacere di un collezionista, e l’abilità di un mercante – e fargli fare «un ulteriore scatto in avanti».

Oggi, con il mondo interconnesso e nuovi ricchi che emergono da inediti angoli del pianeta, un pezzo straordinario è facilmente sotto gli occhi di tutti. Come accadde quando lui e suo padre individuarono un forziere asburgico, in ferro e ottone dorato «di uno sfarzo sfrenatissimo», che era chiaramente un oggetto di grande valore. Ma quanto grande? Questo è il punto ed è qui che si gioca la partita. Perché «se un oggetto è di qualità eccellente, incomparabile e irripetibile, allora il valore di quell’oggetto non sta scritto da nessuna parte».