Antichi maestri. Longhi e l’attribuzione (di un orologio)

Sono molti i racconti sulle capacità divinatorie di Roberto Longhi. Forse non ci sarebbe bisogno di evocarle, considerando che la sua opera è tutta intessuta di pratica del conoscitore. Quello che segue è, tuttavia, piuttosto estravagante e vede coinvolti Giorgio Bassani (proprietario dell’orologio), Cesare Garboli e Mario Soldati, entrambi testimoni oculari. "Così un giorno l’orologio […]

di Simone Facchinetti

Sono molti i racconti sulle capacità divinatorie di Roberto Longhi. Forse non ci sarebbe bisogno di evocarle, considerando che la sua opera è tutta intessuta di pratica del conoscitore. Quello che segue è, tuttavia, piuttosto estravagante e vede coinvolti Giorgio Bassani (proprietario dell’orologio), Cesare Garboli e Mario Soldati, entrambi testimoni oculari.


"Così un giorno l’orologio giunse nelle mani di Longhi, il quale trattenne l’oggetto per meno di qualche secondo, il tempo di lasciare cadere un’occhiata all’interno, prima di restituirlo quasi all’istante."


Ecco il racconto del primo: “Se dunque si parla, a proposito del Longhi, di occhio magico e divinatore, bisognerà poi tenere sempre presente quanto fosse acutissimo, elementare e spiccio addirittura, in quell’uomo, il senso della realtà. Non si potrebbe immaginare mago più incredulo del Longhi circa ogni soprannaturale. E a corredo delle tante storie stupefacenti che si raccontano di lui come “conoscitore”, vale forse la pena di riferire un domestico episodio illuminante. Non si tratta di un dipinto, ma di un orologio: un “chain-watch” di tarda fabbrica ottocentesca, marca Elgin, capricciosamente lavorato in oro giallo guarnito di bianco e rosso, quasi una sopravvivenza Biedermeier, ancora oggi di proprietà di Giorgio Bassani. Spesso accadeva che il Bassani esibisse quel pezzo di un certo pregio, acquistato in una bottega romana nel ’49, e ne vantasse la fattura araldica, il gusto Secondo Impero trapiantato in terra di Lincoln, mostrando all’interno della cassa, inciso in chiara calligrafia corsiva, il nome e il cognome, forse di origine australiana, dell’antico proprietario: “Gerald Rose”. Così un giorno l’orologio giunse nelle mani di Longhi, il quale trattenne l’oggetto per meno di qualche secondo, il tempo di lasciare cadere un’occhiata all’interno, prima di restituirlo quasi all’istante. “È un bell’oggetto, ma un Gerald Rose proprietario di quest’orologio non è mai esistito. Questo non è un orologio a catena, come lo porti tu. È un orologio femminile. Anzi, è un regalo, come si vede da quel fregio, da quel fiore dalle corolle in oro bianco, certamente un non-ti-scordar di me. Questo orologio è stato donato da un certo signor Gerald a una signorina di nome Rose. C’è la dedica”. Tra i due nomi, infatti, si poteva leggere, in crittogramma, un monosillabo: “Gerald to Rose”. Oggi quel “to” è visibilissimo, come tante altre cose dell’arte italiana nei secoli. Visibilissime, chiarissime, ma dopo che il Longhi le lesse” (C. Garboli, Longhi, in Falbalas, Milano 1990, pp. 32-33).

Ecco la chiosa di Soldati: “così come Garboli la riferisce, l’analisi filologica che Longhi compì dell’Elgin di Bassani mi pareva incompleta. Non soltanto “orologio femminile”, deve aver detto Longhi, ma anche un “pendentif”: lo usavano le signore eleganti verso gli anni Novanta, appeso, e talvolta assicurato col fiocco di un nastro serico, a una broche appuntata sul corsetto, a sinistra, poco sopra il cuore: e lo portavano rivolto verso la persona: per guardare l’ora, piegavano civettuolmente il capo verso la spalla destra, e facevano scattare il coperchietto con una breve, graziosa torsione del polso sinistro”. (M. Soldati, Le due Bigliardi, in 55 novelle per l’inverno, Milano 1971).