Alessandra Di Castro

Non esattamente “una vita da mediano”

di Marco Riccòmini

Avrà avuto otto o nove anni in quel bianco e nero, e lo sguardo profondo e intenso, sebbene qualcuno, da dietro l’obiettivo, li avesse invitati entrambi a pronunciare un «cheese!». Stava di fronte al padre Franco, mani dietro la schiena, lo sguardo oscurato da un paio di occhiali da sole dalla montatura spessa, come in quegli anni li avrebbe potuti portare Lino Ventura, la schiena un po’ curva, come lo ricordo ancora sul finire della vita. Si fecero ritrarre a fianco dei Tetrarchi, quel gruppo in porfido incastrato in un angolo della Basilica di San Marco a Venezia, d’epoca tardoantica. Allora non poteva sapere che quello sfondo le avrebbe segnato la vita, o forse sì, perché Alessandra sostiene di aver sempre saputo, fin da piccola, quale sarebbe stata la sua strada. Lastricata (verrebbe da dire) da commessi in pietre dure, o “imperiali”, come quello estratto da una cava egiziana da cui escono i quattro figuri coronati che s’abbracciano alle spalle di padre e figlia in quella foto. Poi lo sforzo per liberarsi, come un Prigione, dai ceppi segnati di «una vita da mediano, da chi segna sempre poco, che il pallone devi darlo, a chi finalizza il gioco». Ma basta guardare il suo sguardo in quel bianco e nero per capire che non era nata per «recuperar palloni». Semmai oggetti rari e curiosi, mosaici e micromosaici, bronzi, cammei antichi e gemme preziose, come quelle appartenute al Poniatowski (Prince Stanislaw Poniatowski’s Gems, 2019). Alla fine, a «lavorare sui polmoni» tocca a chi prova ad inseguirla ma è «nato senza i piedi buoni».