Adriano Cera

Ammiravo la sua sprezzatura coi disegni (nei cui segreti mi introdusse), e non poche furono le sortite che condividemmo, nei ruoli di maestro e allievo.

di Marco Riccòmini

«Ecco un altro bolognese…», sentii bisbigliare alle mie spalle, quando varcai per la prima volta il portone di piazzetta Bossi. In effetti, la lista dei “transfughi” felsinei in Finarte (sotto l’occhio vigile di Carlo Volpe) era già nutrita e, mentre Maurizio “occupava” la sede di via Manzoni, il fratello Adriano si divideva tra Milano e Roma. Non so come me la sarei cavata in quegli anni senza i suoi consigli. E se, per l’anagrafe, persi l’appuntamento con Mario Spagnol, Adriano riempì quel vuoto col racconto della felice collaborazione in Longanesi, che permise l’uscita dei due fondamentali repertori de La pittura emiliana del ‘600 poi del ‘700, quindi La pittura neoclassica Italiana (prima di dare mano a Disegni Acquarelli Tempere di Artisti Italiani dal 1770 ca. al 1830 ca. e Pittura a Roma 1534-1621. Da Paolo III Farnese a Paolo V Borghese). Ammiravo la sua sprezzatura coi disegni (nei cui segreti mi introdusse), e non poche furono le sortite che condividemmo, nei ruoli di maestro e allievo. Da lui appresi l’amore per i libri (dai quali scartava le sovraccoperte) e a muovere i primi passi nel mercato, ma l’arte di cui era vero maestro (ed io pessimo allievo) era quella del biliardo all’italiana. Invano tentò, ogni volta si presentava occasione, bar di provincia o nel seminterrato fumoso del ‘Circolo amici del biliardo’ a Bologna, d’insegnarmi quella che per lui era la ovvia geometria dei colpi. Dopo quelle verdognole di marca ‘Orsi’ da ‘Canè’ (il ritrovo dei giocatori sotto le due torri), dobbiamo dire addio anche alla luce di Adriano, spentasi troppo presto.