Architetto, collezionista e mecenate, Luca Bombassei è cresciuto circondato dall’arte antica. Perciò l’ha rinnegata e poi riscoperta. Oggi, l’equilibrio tra antico e contemporaneo è diventato la cifra distintiva del suo lavoro di progettista. Ce lo racconta in prima persona, condividendo anche qualche consiglio, a testimonianza di come la nuova generazione di collezionisti possa riconciliare questi due mondi.
Quando ha iniziato a collezionare?
Circa 30 anni fa. Ho cominciato con la fotografia, più facile ed immediata per un neofita. Credo che la mia prima acquisizione fosse la foto di un paesaggio, quasi completamente bianco: l’immagine di un piccolo casino di caccia su un altopiano innevato, sotto l’orizzonte di un cielo lattiginoso. Un’immagine minimalista, perfettamente in linea con l’estetica degli anni ’90. Ciò che mi colpì fu il dialogo tra architettura e natura, un tema in cui ancora oggi mi riconosco. Fu allora che pensai: “Guardiamoci intorno, vediamo cos’altro c’è”.

Perché continua a collezionare?
Mi sono reso conto che è una fonte inesauribile di stimoli, sia per la vita privata che per il lavoro. I miei interessi collezionistici si sono evoluti parallelamente alla mia professione, dove – come in ogni attività creativa – la ricerca d’ispirazione e di prospettive diverse dalle proprie è indispensabile. L’arte apre molte porte su mondi che fino a quel momento non avevi considerato, o non conoscevi. Il fascino della conoscenza è molto potente, e poi il mio motto da sempre è “la coerenza è per chi non ha idee”. Quindi, via libera a scoprire tutti i mondi possibili.
Come colleziona? D’impulso o pianifica?
Ammiro chi colleziona in maniera scientifica, ma io lo faccio in modo assolutamente istintivo. Mi piace confrontarmi con persone di cui mi fido, ascoltare le loro opinioni, ma poi, alla fine, seguo la mia testa. O forse dovrei dire il mio Ego.

Le è mai capitato di pensare di aver sbagliato un acquisto? Come ha reagito?
Sì, è successo. Comunque non ho mai rivenduto nulla: conservo quei pezzi come un monito. Trovo, anzi, che ciò mi abbia dato l’opportunità di rimettere in discussione il mio punto di vista. E poi, per fortuna, con il tempo capita di cambiare idea e gusti. Impariamo ad apprezzare ciò che prima non comprendevamo.
Eterni favoriti?
Difficile dirlo. Cambiano continuamente, complici le nuove prospettive che emergono spostandoli da una casa all’altra. Sarà forse una deformazione professionale, tuttavia trovo che un’opera, inserita in un contesto diverso, possa acquisire un’energia del tutto nuova. Sposto i lavori incessantemente, anche all’interno della stessa casa. Nella masseria che ho ristrutturato in Puglia, per esempio, le pareti sono costellate di chiodi che ormai non mi preoccupo neppure più di togliere.
Esiste quindi un legame tra le opere che colleziona e le case in cui andranno a finire?
Be’, le sensazioni che un’opera suscita in Puglia potrebbero non essere le stesse se la portassi a Venezia. Però attenzione: non acquisto mai un pezzo con l’intento di collocarlo in un certo luogo e tanto meno perché si adatta all’arredamento. Quando scelgo un’opera lo faccio a prescindere, senza condizionamenti… Bisogna essere un po’ fatalisti. Poi questa inizia a viaggiare tra le mie case – Veneto, Lombardia, Puglia –, finché capisco dove sto bene io con lei e dove lei sta bene con me. Mi piace pensare che le opere abbiano una vita propria e l’interazione con loro mi dà grande soddisfazione.

Descriverebbe la sua collezione come eterogenea o c’è un focus particolare?
Senza dubbio eterogenea: va dall’installazione site specific ultra-contemporanea di Olivier Mosset a pezzi di autori storicizzati, come De Chirico o Picasso. È possibile però individuare alcuni indirizzi più specifici: ho molte opere di artiste donne, specialmente a Venezia, poi arte contemporanea africana e arte pop.
Non ama l’antico?
Provengo da una famiglia in cui, negli anni Ottanta, l’antiquariato era un must. Forse è stata una reazione inevitabile: mi sentivo saturo di quel mondo e mi sono orientato verso il contemporaneo, per poi trovare però un sereno equilibrio in cui far convivere il design e l’arte storicizzati con il mondo del contemporaneo.
C’è un grande “Capriccio con rovine” del Canaletto nella sua casa a Venezia, mi pare.
Sì, appartiene a mio padre. Ma era d’accordo con me che questa fosse la sua collocazione ideale perché risuona perfettamente con il contesto: è stato come riportare il Canaletto a casa sua. Del resto, non mi nego il piacere di godere di un capolavoro.
Accanto al Canaletto cosa ha scelto di allestire?
Di fronte ci sono un Capogrossi e un pezzo di Nathalie Provosty, che è un imponente dipinto total black. Si crea così un perfetto dialogo tra opposti. Al centro, a fare da mediazione, ho collocato una scultura di Francesco Vezzoli: un busto romano con una testa che invece è una sua fusione, ispirata alle muse di De Chirico. In quest’opera l’artista recupera l’antico e lo fa dialogare con delle icone pop.

A proposito del dialogo tra antico e contemporaneo, è un esercizio che le capita spesso di affrontare nelle case che progetta per i suoi committenti?
In realtà, fino a una ventina di anni fa o era tutto antiquariato o niente. Oggi, per me, è fondamentale trovare un equilibrio, una buona miscela tra le due dimensioni. Anche i committenti sono più aperti all’idea che antico e contemporaneo possano coesistere. Personalmente, cerco sempre d’inserire un elemento antico nei progetti che realizzo, un pezzo dotato di un’intrinseca qualità legata all’eccellenza artigianale – valore che attribuisco all’antiquariato e considero imprescindibile.
Cosa chiedono più spesso i committenti collezionisti?
Di posizionare quante più opere possibile. L’accumulo, come può immaginare, è il mio peggior nemico. Credo invece sia fondamentale avere il coraggio di riconoscere che alcune cose semplicemente non funzionano insieme. L’ideale è una selezione mirata, capace di esaltare l’impatto complessivo. Non è necessario esporre tutto: meglio destinare una stanza all’archivio. Di recente, ho progettato un sistema modulare di griglie – simile a quelle usate nei musei, ma in scala ridotta – che consente di archiviare le opere e, se si desidera, di farle ruotare agevolmente.
Chi sono i maestri a cui guarda quando progetta?
Ho attinto in modo quasi bulimico a Carlo Scarpa, un innovatore anche nel ripensare il modo di esporre l’arte. I suoi interventi nei contesti storici sono esempi magistrali di come sia possibile restituire centralità alle opere, valorizzandole attraverso strutture contemporanee.

Quindi quali strategie si possono mette in atto, per esempio?
L’uso del metallo o del tessuto imbottito come sfondo è una soluzione interessante: isola l’opera in un mondo a sé. Questa operazione non solo enfatizza il pezzo esposto, ma può anche creare maggiore coerenza con il contesto in cui si trova. Un’altra opzione consiste nel posizionare per esempio un quadro su un cavalletto, permettendo di osservare il retro della tela, per svelarne magari la storia segreta e offrire un’esperienza tridimensionale.
E per quanto riguarda l’illuminazione, meglio naturale o artificiale?
Durante l’università trascorsi un anno a Copenaghen, dove le giornate sono lunghissime oppure brevissime. Lì, ho avuto modo di riflettere molto sul tema della luce. Eppure, non riesco a dire se preferisco l’una o l’altra. Di certo la luce è un elemento importante quanto l’architettura stessa. Se è naturale ha il vantaggio di rendere l’opera viva e dinamica, mutando con il trascorrere delle ore. Questo è uno degli aspetti distintivi: in un museo la luce è spesso artificiale e statica, mentre in uno spazio domestico segue le abitudini di vita di chi ci abita.
C’è, in effetti, una corrente di pensiero che ritiene che le opere siano più vive a casa che al museo.
L’idea di “far vivere” le opere è probabilmente l’aspetto del collezionare che amo di più. E proprio perché le opere, come dicevamo, hanno una loro energia – delle storie da raccontare – è fondamentale dar loro il giusto spazio, evitando che vengano sopraffatte da altre vicine.

Pensa che quello del collezionismo sia un gene, come qualcuno sostiene?
Forse qualcosa nel DNA c’è. Penso a mio padre: amava dipingere, ma non potendo seguire la strada dell’artista – considerata all’epoca poco opportuna – ha iniziato a collezionare, dopo essere diventato imprenditore. Credo, però, che il fattore ambientale sia più importante. Crescere tra opere e libri d’arte mi ha sicuramente influenzato. Detto ciò, esistono così tanti modi diversi di collezionare che fatico a credere in una vera e propria predestinazione genetica.
Lei dice che non manca mai d’inserire qualcosa di antico nelle case che disegna, ma l’antico non rientra necessariamente nel suo progetto collezionistico. Tuttavia, le sarà capitato di desiderare un pezzo del passato per se stesso?
Certamente sì, amo l’antico e qualche acquisto l’ho fatto. L’ultimo colpo di fulmine è stato per i vetri. Sebbene abbia una predilezione per il periodo in cui il vetro incontra il design, in particolare a Venezia dagli anni Trenta del Novecento, allo stesso tempo subisco il fascino di autentici pezzi d’antiquariato, con 300 o 400 anni di storia. Mi commuove pensare come qualcosa di così speciale e fragile sia capace di resistere al tempo.
10 Febbraio 2025