Apre Brera a Palazzo Citterio, arrivo e partenza di un sogno

A Milano, dopo 52 anni di tormentata attesa, riapre Palazzo Citterio; ma la Grande Brera è ancora qualche metro in là.

di Guido Furbesco

Ed è subito “Miracolo a Milano”. Il titolo del celebre film di Vittorio De Sica – quello con gli attori che nel 1951 volavano via sulle scope sopra Piazza del Duomo, ricordate? – torna utile per parlare di questa pellicola appena giunta – grazie, Sant’Ambrogio – sui nostri schermi: un kolossal firmato da Angelo Crespi alla regia, con l’ausilio di Chiara Rostagno, la collaborazione di Mario Cucinella, e il sostegno («un lavoro indefesso e acribioso») di tutta l’équipe, i tecnici e le maestranze che hanno contribuito a dare il colpo di acceleratore finale all’annosa ed epica vicenda. Smorza i toni, Crespi, allergico alla retorica e desideroso di «diminuire l’intensità del vocabolo “epocale”» che le cronache hanno associato alla notizia dell’apertura di Palazzo Citterio: «È sicuramente un evento storico per le nostre biografie», ha precisato il direttore generale con un certo understatement, riferendosi poi alle «tante energie che hanno concorso affinché questa cosa succedesse proprio adesso, quando ormai nessuno più credeva si potesse fare», e accennando pure allo Zeitgeist, ovvero lo spirito dei tempi.

Tempietto, Donation of the Salone del Mobile, Milan, Palazzo Citterio, Project by MCA – Mario Cucinella Architects, Ph: Walter Vecchio.

Ora, al netto delle citazioni di Hegel e Tolstoj spese durante le presentazioni ufficiali, una cosa è certa: di tempo ne è passato parecchio (troppo) da quando si è iniziato a parlare della “Grande Brera”. Per dire: non c’era neppure la televisione a colori quando, nel 1972, questo edificio nato Fürstenberg veniva acquistato dallo Stato (su impulso dell’allora visionario direttore Franco Russoli) affinché diventasse un polo espositivo dedicato al Novecento, a integrazione delle opere risalenti ai secoli passati e già offerte ai visitatori della Pinacoteca giusto duecento metri più in là. Progetto moderno e ambizioso che – a riavvolgere il nastro degli avvenimenti – non può non apparire come assai scalognato, assumendo in breve i tratti di un cammino accidentato e snervante, costellato di buoni propositi, slanci abortiti, intralci burocratici, false partenze, polemiche, sprechi, cantieri finiti nel nulla (e altri portati a termine con risultati assai mesti, ahinoi), ipotesi varie e assortite che hanno pure coinvolto il complesso braidense nel suo insieme, ripensato in toto attraverso il ventilato trasloco delle aule dell’Accademia, la copertura vetrata del Cortile d’onore – con la statua di Napoleone al sicuro dalle intemperie – e pure una passerella sospesa sul verde dell’Orto botanico a collegare le diverse sedi. E vogliamo parlare dei contenuti? Un paio le vittime davvero illustri di tutto questo ambaradan: la collezione d’arte Jucker e quella Mattioli, ovvero due della quattro raccolte private destinate a essere esposte a Palazzo Citterio e che oggi, invece, a causa delle conclamate lungaggini, fanno bella mostra di sé al Museo del Novecento.

Tempietto, Donation of the Salone del Mobile, Milan, Palazzo Citterio, Project by MCA – Mario Cucinella Architects, Ph: Walter Vecchio.

Chi varcherà la nuova soglia – ai civici 12 e 14 di via Brera, per coloro che avessero vissuto finora su Marte – potrà godere dei capolavori donati all’istituzione dai coniugi Jesi – che proprio in queste stanze hanno abitato – e dai coniugi Vitali, tra i più illustri “cultori del bello” del panorama autoctono, con lavori firmati – tra gli altri – da Carrà, Boccioni, De Pisis, Modigliani, Sironi. Le due eccezionali collezioni (la prima, soprattutto) sono esposte al piano nobile: una fronte strada, con affaccio sullo struscio di turisti e passanti, l’altra con vista sul giardino interno; a connetterle, la grande sala dell’Ottocento, battezzata con il numero 40 secondo un criterio di continuità rispetto al percorso della casa madre, dove le opere arrivano a coprire un arco cronologico che termine con il 1861. Rimane il rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e invece non è, ma pazienza; c’è altro, a cui accennare. Illustrando il suo progetto di allestimento, l’architetto Cucinella ha dichiarato che oggi, «al cospetto della magia di questo palazzo, è come se i 52 anni di attesa fossero spariti. È tempo di lasciarci indietro tutto e di guardare avanti». Proposito encomiabile, però di difficile attuazione. Il fatto di attraversare finalmente questi spazi e di vedere questi dipinti non può non essere motivo di vanto e di giubilo per tutti quelli che hanno a cuore l’arte, la cultura, il profilo di Milano (e non solo il suo); ma la sensazione generale è straniante. Siamo in una settecentesca residenza nobiliare nel cuore storico della città, una costruzione non certo monumentale; gli ambienti sono quelli che sono, farne un efficace palcoscenico espositivo aveva di per sé i contorni di una missione sfidante, da giocarsi nel rispetto della configurazione e della distribuzione originaria delle sale. Non bastassero le condizioni di partenza, ecco che capita tutto quello che è capitato in questo mezzo secolo e rotti. I diversi restauri e interventi (“intrusioni”, si sente dire) che si sono accavallati nel tempo hanno prodotto un risultato finale inevitabilmente privo di omogeneità, coerenza, respiro unitario. Troppi i cambi sostanziali e di registro: le fredde scalinate metalliche che ora fendono in altezza l’intero fabbricato, le dense atmosfere della sala dell’Ottocento, le nuove e delicate tonalità pastello scelte per gli ambienti domestici dove risiedono i lasciti, il mood industriale del secondo piano (destinato alle esposizioni temporanee) dominato dagli impianti a vista, il cemento brutalista dell’ipogeo disegnato da James Sterling… e nel cortile, un ingombrante tempietto in legno chiaro pensato per offrire a chiunque uno spazio coperto dove sedersi e sostare (questo della “fluidità” tra interno ed esterno e tra pubblico e privato è il nuovo mantra, e così anche la corte citteriana paga pegno diventando contesto da vivere liberamente, non solo dai visitatori, lungo un attraversamento che – ci racconta Crespi – dovrebbe prolungarsi fino a via Gabba).

Tempietto, Donation of the Salone del Mobile, Milan, Palazzo Citterio, Project by MCA – Mario Cucinella Architects, Ph: Walter Vecchio.

La Pinacoteca “una e bina” è così, prendere o lasciare; e noi volentieri prendiamo, ci mancherebbe, invitando però tutti a un’ulteriore presa d’atto: quello di oggi è un agognato punto d’arrivo, ma pure un rinnovato punto di partenza («guardiamo avanti», diceva Cucinella) che dovrebbe coinvolgere tutti gli attori in campo. La missione e l’impegno, ora, riguardano il significato ultimo della denominazione coniata da Russoli, sbandierata a mo’ di “cappello” dalle istituzioni sotto il comando di Crespi, ovvero Pinacoteca, Palazzo Citterio e Biblioteca Nazionale Braidense: «L’idea», spiegava lui lo scorso settembre, «è che “Grande Brera” possa essere una sorta di mother brand non solo per le istituzioni che ho l’onore di dirigere, ma anche per l’Accademia, l’Osservatorio Astronomico, l’Orto Botanico, l’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere, l’Archivio Ricordi e la Società Storica Lombarda, che abitano e condividono con noi l’edificio monumentale. La mia ispirazione è che si possa comunicare sempre “Grande Brera / Milano” insieme al proprio logo, così da dare ancora più forza a un luogo che è già percepito dal visitatore come un complesso unitario». Tra “percezione” e “realtà” c’è di mezzo il mare, verrebbe da dire; ma il sogno di una Brera così “grande”, da attraversare e scoprire senza soluzione di continuità, è un sogno bellissimo… Dai, non facciamo che passino altri 52 anni.