Nel corso del secolo scorso di grandi collezionisti ne sono fioriti parecchi, ma pochi hanno avuto l’occhio, il fiuto e la sensibilità che hanno contraddistinto Geo Poletti. A dire la verità, Ruggero Poletti, noto a tutti come Geo (Milano, 1926 – Lenno, 2012), non è stato un semplice collezionista, giocando anzi le parti meno scontate del vero e proprio cacciatore di quadri. Un marchand amateur dotato di una capacità attributiva innata, quotidianamente coltivata attraverso uno studio costante e un aggiornamento tempestivo che lo ha portato a raccogliere, in maniera anche compulsiva, riviste, cataloghi e monografie sino ad allestire una fornitissima biblioteca.
Una dote, quella di Geo Poletti per la connoisseurship, ulteriormente affinata attraverso una fitta rete di rapporti intessuta con i massimi studiosi del tempo, a cominciare niente meno che da Roberto Longhi. Sono state proprio queste frequentazioni a lasciare un segno indelebile nello spirito di Geo, tanto che il suo appartamento in via Cernaia a Milano non era poi così distante dall’apparire un circolo di storici dell’arte. È lì, infatti, che Poletti era solito interloquire con gli specialisti della materia, scambiando opinioni con Mina Gregori, Federico Zeri o Alvar González-Palacios, per esempio. Ma è soprattutto lì che consolidò quel rapporto che presto si sarebbe rivelato assolutamente centrale con Giovanni Testori (1923-1993), lo “zio Gianni” come lo avrebbero chiamato i bambini di casa Poletti, oggi preziosi custodi della memoria del padre.
È proprio ponendosi a rimorchio di questa cerchia di filiazione longhiana che Geo Poletti, come il cecchino appostato con pazienza sul campanile, ha saputo calibrare il tiro, mettendo a fuoco un gusto collezionistico ben preciso, che lo ha spinto a posizionare anzitutto l’ottica sui grandi protagonisti della pittura lombarda del Sei e del Settecento. Ne è scaturito un interesse viscerale, ma non esclusivo, per la cultura figurativa borromaica dei primi decenni del XVII secolo, dominata dalle temperie di Cerano e Morazzone e dalle tensioni naturalistiche di Tanzio da Varallo e Daniele Crespi. A ciò si è affiancato il particolare riguardo per i principali esponenti della “pittura della realtà”, massimamente rappresentati da Giacomo Ceruti e Fra Galgario. Nomi sino a quel momento quasi completamente trascurati al di fuori della stretta cerchia di addetti ai lavori e che, di conseguenza, tradiscono il ruolo cruciale esercitato nella loro riabilitazione da Geo, che, in cordata con Testori, schiuse le porte del collezionismo a un nuovo ventaglio di pittori.
Difficile dimenticare la prima mostra monografica dedicata a Ceruti, allestita presso gli spazi della Galleria Finarte di Casimiro Porro, a Milano, nel 1966. Una rassegna che prese le mosse proprio dal prolifico rapporto di dare e avere, mai unidirezionale, tra Poletti e Testori. Così come non si possono tacere le varie donazioni assestate dallo stesso Poletti ad alcune delle più insigni istituzioni museali presenti in nord Italia, come testimonia, su tutti, il caso dello struggente San Francesco che mostra le stigmate entrato nella Pinacoteca di Brera nel 1969 per dono di Geo. Oppure l’accostante Sacra Famiglia con sant’Antonio da Padova destinata nel 1998 al Castello Sforzesco di Milano, capolavoro di quell’originalissimo visionario quale fu Paolo Pagani da Valsolda, maestro del secondo Seicento lombardo, la cui riscoperta trova in Poletti un padre putativo.
Ma, come sempre, navigando tra i fiordi della storia dell’arte, un iceberg non può mai ridursi alla semplice punta. E sebbene non sia facile spingersi sino alle sue radici, volendo comunque provare a portare in superficie i trucchi del mestiere sarà bene affidarsi a quei casi che, più degli altri, possono aiutarci quantomeno ad avvicinarvisi; questo, anche grazie alle ricerche messe a segno con passione e metodo da Paolo Vanoli e Alessandro Morandotti nella cornice della bella mostra dedicata alle due anime di Geo Poletti, quella di pittore e collezionista, tenuta lo scorso anno presso la Pinacoteca Civica di Como. Senz’altro una delle opere più esemplificative al proposito è rappresentata dalla stupefacente Venere e Amore, vertice assoluto dell’attività del cremonese Camillo Boccaccino, oltre che dell’intero Manierismo in Italia settentrionale. Un quadro, questo, che, al di là di costituire una cartina di tornasole dei multiformi interessi di Geo – che, com’è noto, toccarono anche il caravaggismo, il mondo della natura morta e, più fuggevolmente, la pittura del Cinquecento –, ci dà la misura dell’occhio da fine conoscitore che lo contraddistinse smarcandolo al contempo dagli altri collezionisti. Nonostante l’attribuzione a Camillo fosse già stata avanzata da Giorgio Faggin nel 1963 sulle pagine di «Emporium», era infatti da qualche tempo che la tela, già precedentemente assegnata a Dosso Dossi, aveva iniziato a gravitare in maniera sempre più convincente e pericolosa nell’orbita di Lavinia Fontana, tanto che fu proprio con quel riferimento che il dipinto fece la sua apparizione in pubblico presso l’asta londinese di Sotheby’s, il 5 giugno 1974. Ad aggiudicarsi personalmente il lotto 120 fu quindi Geo, che comprò il quadro come Boccaccino dopo essere volato a Londra per valutare de visu l’opera, che qualche giorno dopo sarebbe stata esaminata anche da Testori.
L’acquisizione della Venere di Camillo è dunque il risultato di un’operazione colta, dove occhio, studio, amicizie e mercato vengono a compenetrarsi in virtù di un’inarrestabile sete collezionistica, sempre accompagnata da un’altissima asticella qualitativa. Una sete che, a dire la verità, lo spinse anche ad addentrarsi in lidi veramente pionieristici. Lo suggerisce non solo il caso di Paolo Pagani, ma anche il recupero di una coppia di tele, sinora sconosciute agli studi, raffiguranti ciascuna un pitocco ritratto mentre procede verso l’osservatore tenendo tra le mani una canestra di frutta.
Un pendant che, forse proprio sulla scorta di queste compresenze “pitocchesche e naturamortiste”, dovette entrare nel raggio di interessi di Geo, che nel 1977 decise di rivolgersi per un parere a Federico Zeri inviandogli alcune fotografie in bianco e nero, ora conservate nell’omonima Fondazione bolognese. Il quesito però non dovette arrivare a una soluzione che appagasse l’occhio esperto del conoscitore romano, così il tutto restò in sospeso e le riproduzioni finirono catalogate nell’archivio fotografico di Zeri con un generico riferimento alla scuola lombarda del Seicento, mentre Geo optò per liberarsi dei quadri, non a caso riemersi qualche decennio orsono presso una residenza sul lago di Como, dove sono stati rintracciati da Stefano e Guido Cribiori. Col senno del poi è possibile concludere che si trattava di due inediti di Sebastiano Giuliense detto il Sebastianone, un pittore affascinante e picaresco che riscosse una grande fortuna nelle collezioni lombarde sei e settecentesche, ma a quelle date praticamente impossibile da riconoscere. Ed ecco, allora, che la curiosità per l’ignoto e il desiderio di risolvere un rebus sino a quel momento irrisolto, non scongiurarono – anzi, semmai alimentarono – l’interesse insaziabile di Geo, cacciatore-pittore.
Come Geo Poletti sia entrato in contatto con questi due quadri è difficile dirlo, anche perché, al di fuori delle aste, non è facile ricostruire la genesi dei tanti acquisti assestati sul mercato, generalmente circoscrivibili ab anno, ma non sempre – anzi quasi mai – riconducibili ad nomen. Per esempio, se sappiamo che la Liberazione di san Pietro dal carcere di Giulio Cesare Procaccini venne comprata a Londra da Malcom Waddington all’inizio degli anni Ottanta, nulla è dato sapere circa le modalità di ingresso in collezione Poletti del Ritratto di Caterina Corbellini dipinto dal comasco Carlo Innocenzo Carloni verso il 1735. Una tela, quest’ultima, dietro alla quale si nasconde peraltro un’acuta attribuzione di Geo, resa nota solo alla volta della donazione dell’opera presso la Pinacoteca di Brera, nel 2009.
E se in alcuni casi, come nella commovente Didone di Carlo Francesco Nuvolone o nella più cruda Testa di maiale già assegnata a Ceruti ma spettante al tedesco Michael Hartwagner, il nome di Geo Poletti viene a incrociare quello di Enos Malagutti (1913-1994), pittore-restauratore-mercante di origini mantovane attivo a Milano, in altri casi la sua orbita interseca quella di un personaggio veramente enigmatico su cui sembra difficile far luce. Mi riferisco al fantomatico “conte” torinese Filippo Giordano delle Lanze (1924-1970), una figura misteriosa, morta assassinata nella sua abitazione di Venezia, che, tuttavia, ha giocato una parte non secondaria nelle vicende del mercato dell’arte del terzo quarto del secolo scorso, venendo addirittura ritratta dallo stesso Poletti nel 1967.
Un giro di anni, questo, affatto scontato se si pensa che giusto l’anno prima, nel 1966, la spettacolare Adorazione dei pastori di Tanzio da Varallo venne acquistata dal museo di Palazzo Madama direttamente da Delle Lanze che, a sua volta, l’aveva ricevuta da Geo Poletti. Ma non è tutto, se si considera che, in precedenza, l’opera era stata restituita a Tanzio da Testori, che, nel 1959, non aveva perso l’occasione di presentarla al pubblico convocandola alla prima rassegna monografica dedicata al pittore valsesiano.
Ne risulta, dunque, un’intricatissima triangolazione che ci restituisce la misura di una certa consuetudine tra queste intriganti personalità attive tra Lombardia e Piemonte, tutte in vario modo gravitanti attorno alla persona di Geo Poletti. È qui che le strade si incrociano, ma è anche qui che la via si fa sempre più sfumata, lasciando intendere che ai canali più curiali delle aste e del mercato, Poletti non disdegnò di intraprendere sentieri meno battuti, dal sapore quasi carbonaro. Del resto, non c’è poi più di tanto da stupirsi: il vero cacciatore, o il vero tiratore che dir si voglia, è colui che si muove in silenzio, veloce e meticoloso, senza lasciar tracce né indizi del suo passaggio, pronto solo a premere a momento debito il grilletto. Bang.
18 Dicembre 2024