Nella vita dell’antiquario ci sono le opere d’arte, ma anche una considerevole mole di studio, il rischio, il savoir-faire, le scommesse vinte e quelle che forse era meglio non fare. Tra coloro che hanno provato a catturare il fascino di questo mestiere i registi cinematografici occupano senz’altro un ruolo principale. Proponiamo perciò una lista di film che hanno parlato degli antiquari, per scoprire che quasi sempre la finzione, anche se funzionale al racconto, finisce per tradire una realtà che difficilmente può essere ridotta a stereotipo cinematografico.
Partiamo con il primo dei racconti presenti in The French Dispatch di Wes Anderson (2021), che si vorrebbe vagamente ispirato agli affari del re degli antiquari, Joseph Duveen. L’episodio si apre con il dipinto in opera del signor Moses Roselthaler, un pittore folle condannato a 50 anni di prigione per duplice omicidio. Fortuna vuole che il mercante d’arte Julien Cadazio fosse incarcerato nell’attigua depandance, per evasione fiscale ovviamente. A ogni modo, anche una cella può essere un luogo per fare affari: “Ogni artista vende tutte le sue opere. Quello fa di lei un artista: venderle”. Alla richiesta del pittore di “50 sigarette, anzi, facciamo 75” per la vendita del dipinto che interessa al mercante, questo risponde con un un’offerta di 250mila franchi. Sarebbe una goffa emulazione della tecnica usata da Duveen per creare più valore attorno ai suoi acquisti, ma tutto fa pensare che nel caso specifico sia servita solo a cavarsela con una vana promessa suggellata da una caparra di 83 centesimi, un marron glacé, e quattro sigarette. Un anticipo un po’ limitato per un “capolavoro che vale una notevole, forse anche un’esorbitante, somma di denaro. Ma non ancora”.
Passiamo solo velocemente sugli intrighi del celeberrimo film di Giuseppe Tornatore, La migliore offerta (2013), ricco di colpi di scena che riguardano, più che i galleristi, figure ibride del mercato. I veri antiquari hanno però un ruolo cardine nel backstage, provvedendo a reperire le opere della collezione di Franco Maria Ricci, allestita nella sua villa a Fontanellato, in provincia di Parma.
Con un volo ci spostiamo dall’Europa a Buenos Aires per incontrare Arturo Silva, gallerista di professione e protagonista del film argentino Il mio capolavoro (Gastón Duprat, 2018), alle prese con un pittore sui generis. Qui la macchietta del mercante d’arte truffatore si allarga e si tinge di rosso. Dal topos del commerciante filibustiere si passa all’assassino (niente spoiler, la premessa è nell’incipit). Non che il mito dell’artista mattoide nel corso del film ne venga fuori dismesso. Anzi, è proprio quello a far vacillare l’integrità morale di chi gli sta accanto. Ma almeno c’è un fondo di verità nell’esaltare “anche la truffa come un’opera altamente artistica”. Quando poi tutta l’incredibile impalcatura rischia di crollare accade solo per “uno di quegli idioti fissati con l’onestà”.
Colpevolmente connivente è pure la gallerista di arte contemporanea al centro degli eventi dello scadente thriller Velvet Buzzsaw (Dan Gilroy, 2019): “io amo la lealtà, però ucciderei per farti esporre”. Il cliché, che in misura diversa accomuna i mercanti d’arte nel cinema, è riassunto nella massima tatuata sul braccio della signora: “No death, no art”.
A ribadire il tutto ci si mette perfino Mick Jagger nei panni di mercante-collezionista in La tela dell’inganno (Giuseppe Capotondi, 2019). Nella sua villa sul Lago di Como ammette en passant di aver acquistato un ritratto di “donna con sciarpa rossa” di Modigliani, rivelatosi un falso, e di essersene sbarazzato vendendolo alla Tate Modern. Anche questa volta di reale c’è solo l’opera che ha mosso la fantasia dei retroscena, probabilmente il ritratto di Jeanne Hébuterne au foulard passato in asta nel 2016 (Londra, Sotheby’s; 21 giugno, lotto 12) che ha raggiunto il prezzo, da capogiro, 40milioni di euro. Ma la caccia ai capolavori nella trama del film porterà ben oltre la presunta frode, non giovando all’immagine già distorta come in un’opera di Modì dei poveri galleristi.
In Mortdecai (Eric Aronson, 2015), nome dell’antiquario che dà il titolo al film, è lo stesso protagonista a mettere subito in chiaro la sua posizione: “sono un mercante d’arte, non un ciarlatano, un furfante, forse, un birichino, un bricconcello te lo concedo, ma mai un assoluto saltimbanco”. La messinscena nella presentazione tradisce i modi di chi predica male e razzola peggio; difatti la vicenda prende una piega piuttosto esuberante. Sui criteri di selezione dell’attore meglio non fermarsi a speculare troppo, ci si potrebbe accorgere che per un antiquario calzasse perfettamente Johnny Depp, un ex pirata.
In questo caso un divertente rubagalline pratico del mercato nero, con modalità certamente meno tragiche del traffico illecito di reperti archeologici raccontato in La Chimera (Alice Rohrwacher, 2023). Il ricettatore è un mercante d’arte sotto mentite spoglie che muove un gruppo di giovani, disgraziati tombaroli male in arnese. Sarà che per riattivare l’incanto bisogna aspettare che scocchi la mezzanotte, non perché questo si rompa come in Cenerentola, ma affinché si avveri, come in Midnight in Paris (Woody Allen, 2011). Per imbattersi in Picasso, Dalì, e godersi il can-can al Moulin Rouge con Toulouse-Lautrec. Senza dimenticare di passare dal salotto di Gertrude Stein e assistere in diretta alla trattativa telefonica per un Matisse da 500 franchi. “Senta, mi stavo chiedendo, non potrei prenderne sei o sette?”. Una manovra economica possibile solo con un salto temporale nel passato. Al contrario, un vero antiquario a loro coevo, Ambroise Vollard, viaggiava nel futuro con i suoi acquisti profetici.
Nella “settima arte” il gallerista continua a rappresentare il truffatore nei thriller e il saltimbanco nelle commedie. L’altro lato della medaglia rimane in attesa di essere raccontato. Per il momento, purtroppo, la finzione scivola nella realtà con un banale espediente che romanza i fatti, una macchietta funzionale alla narrazione, uno stratagemma filmico per strappare una risata (di chi fa un altro mestiere, si intende).