È difficile esagerare i meriti conseguiti dal senatore Giovanni Falier nei confronti di Canova, in quella stagione cruciale che si estende tra la prima formazione artistica e la partenza per Roma: l’averne intuito il talento quando Antonio era ancora fanciullo e reso possibile il garzonato nella bottega di Giuseppe Bernardi a Pagnano d’Asolo; averlo ospitato in laguna dopo la morte del suo maestro e introdotto nell’ambiente veneziano; affidati i primi marmi e propiziata la commissione del gruppo di Dedalo e Icaro, grazie al quale Canova stesso spiccò il volo alla volta dell’Urbe. Tutto un decennio, difficile quanto fondamentale per lo scultore di Possagno, si delinea con chiarezza attorno a questa figura, cui il grande artista non mancherà di tributare fino all’ultimo la più sincera riconoscenza.1 Non meno intenso e significativo il rapporto intrecciato con Giuseppe (Iseppo), figlio del senatore e pressoché coetaneo di Toni, come amicalmente è appellato il giovane Canova nel fitto epistolario con l’erede del suo primo patrono. Un rapporto particolarmente intimo, stretto fin dagli anni dell’infanzia, quando i Falier soggiornavano per lunghi periodi nella loro villa ai Pradazzi di Asolo. Dalla profonda amicizia di uomini così diversi per ceto sociale e percorsi di vita, ma accomunati dall’amore per l’arte, germoglierà la biografia di Canova, data alle stampe da Iseppo pochi mesi dopo la morte dell’amico, nel 1823.2 Dopo le tempestive ma parziali Notizie del Paravia3, è la prima delle numerose vite dedicate al grande artista; e si distingue dalle altre per il registro del narrare partecipe degli eventi, permeato dalla stretta confidenza tra biografo e biografato. Il rilievo di questa fonte è particolarmente marcato per quanto attiene al periodo dell’adolescenza e dell’apprendistato.
Iseppo Falier è testimone attento e attendibile di quel tempo che vede Canova muovere i primi passi nella lavorazione della pietra sotto la guida del severo nonno Pasino. L’avo, come pure il padre Pietro, prematuramente scomparso nel 1761, esercitava il più consueto dei mestieri nella zona del pedemonte, da Pove a Pederobba, dove schiere di lapicidi hanno per secoli tratto sostentamento dalle cave di marmi. Ben più che scalpellino, Pasino “professava l’architettura […] trattava il disegno […] si occupava dell’ornato, e con ottimo gusto”4. L’intreccio delle competenze del lapicida e dell’architetto, quelle che stanno a fondamento di gran di artefici come il Palladio e il Piranesi, avevano permesso al vecchio Canova di elevarsi e di operare come costruttore di altari, microarchitetture impreziosite da pietre dure, paliotti finemente intagliati, dunque più ampia mente nell’ambito architettonico-scultoreo e dell’arredo lapideo.5 Anche l’Abbozzo di autobiografia ricorda che il nonno “aveva mostrato molto talento e capacità in sue opere di architettura, e in qualche piccolo lavoro di scultura”, tanto da trasmettere al nipote “specialmente per la seconda un trasporto incredibile”.6 La radicata consuetudine del Falier con la famiglia Canova è all’origine della protezione accordata al giovane Antonio. “Era mio padre molto affezionato a Pasino” – scrive Iseppo – “impegnandovelo ben spesso con i lavori della sua professione”.7 L’avo aveva infatti avuto una parte non irrilevante nelle migliorie del complesso villereccio di Pradazzi, se a detta del Federici ne avrebbe addirittura “riordinato e ingrandito” l’edificio; ruolo che spetta in realtà, almeno per la chiesetta e l’ala destra, a Giorgio Massari.8 Ma è indubbio che Pasino, dopo aver lavorato assieme al figlio Pietro come scultore di elementi archi tettonici nel duomo di Crespano del Grappa, progettato dal grande architetto veneziano, ebbe a lavorare alle dipendenze del senatore. Tali eventi si legano in modo del tutto eloquente al capitolo della formazione di Antonio. L’intelligenza brillante e l’attitudine alla scultura, prontamente intuite da Falier, indussero il nobile veneziano a convincere il nonno affinché quel promettente ragazzino potesse formarsi in modo ben più proficuo sotto la guida di un bravo statuario. Il precettore era giusto a portata di mano: Giuseppe Bernardi, scultore di buon nome a Venezia, nipote ed erede di quel Giuseppe Torretti che aveva iniziato la gloria degli scultori di Pagnano d’Asolo.

Il Bernardi, che da qualche anno si era trasferito dalla laguna alla nativa Pagnano lavorando intensamente per le chiese dell’area pedemontana, aveva infatti ricevuto dal senatore, intorno al 1766-1768, un’impegnativa commessa strettamente congiunta alla riqualificazione della villa asolana, ovvero una cospicua dotazione di statue da giardino interamente alienata intorno alla metà del Novecento, quando la residenza cessò di appartenere ai Falier. Vale la pena soffermarsi sull’impresa, non solo perché Canova stesso sarà chiamato a completarla, tra il 1774 e il 1776, con le statue di Euridice e di Orfeo, sino ad oggi le più antiche opere figurative del nostro9, ma anche perché è attorno a questi lavori in pietra di Vicenza che il giovanissimo scultore di Possagno iniziò a prendere confidenza con un genere fino a quel momento estraneo alle sue competenze, traendo suggestioni che non mancano di riflettersi sulla primissima stagione creativa. Nel 1924 Antonio Muñoz ne scorse dieci lungo il viale d’accesso alla villa, precisandone in parte i soggetti.10 Solo recentemente sono riemerse sul mercato antiquario cinque statue appartenenti al complesso asolano, seppur con un’errata attribuzione a scultore lombardo.11 Due corrispondono a quelle più note, edite anche da Semenzato nel 1958 e nel 196612, ovvero Paride ed Elena; le altre raffigurano Era (molto lacunosa ma riconoscibile dal pavone che l’accompagna), Afrodite e Atena. Esse attestano pertanto che Falier richieste a Bernardi di rappresentare nella sua completezza il Giudizio di Paride, conclusione emblematica e degna di un ciclo imperniato sul tema dell’amore e della bellezza nel mito. Si riconosce agevolmente lo stile tipico dello scultore nei tardi anni sessanta – le teste tondeggianti dalle chiome raccolte, il panneggio con garbate cadenze classicheggianti che non rinunciano tuttavia a minuzie e a un tono leggiadro di accento rococò – come si evince dal raffronto con le allegorie scolpite per Gatchina, del 1766, ma anche con il San Giorgio di Palazzo Ducale (1769)13. La ricomposizione del Giudizio di Paride a Pradazzi è avvalorata da quanto riporta Antonio Massari, allorché elenca, tra le opere del Bernardi in villa Falier, le statue di Minerva (Atena) e Giunone (Era), poste in corrispondenza delle barchesse, dunque poco discoste da Paride ed Elena, che stavano “a ponente, entro chiosco isolato”14. La possibilità di leggerle oggi in modo più nitido rende ancora meglio comprensibili le parole espresse da Canova, allorché, tredici giorni prima di lasciare questo mondo, spinto dalla nostalgia visitò con l’amico Iseppo Falier il parco della villa e i luoghi dell’infanzia: “Eppure han del merito! Veda veda come hanno tutte una certa grazietta”.15 Quelle statue, per quanto oramai tramontate nel gusto, estranee alla sensibilità neoclassica, destano nell’artista un sentimento che va oltre il metro del giudizio, ma non certo l’ironia e l’alterigia che si sono volute forzatamente scorgere.16
Benché sia indiscutibile il ruolo giocato da Falier nell’affidare a Giuseppe Bernardi il piccolo Canova “come se figlio suo”17, è nondimeno utile considerare che Pasino aveva già avuto modo di operare nei cantieri in cui si era distinto lo statuario di Pagnano e che pertanto tra i due doveva essersi consolidata una certa consuetudine operativa, sullo sfondo della quale campeggia non di rado la figura di Giorgio Massari. Oltre alla villa di Pradazzi d’Aso lo, sono emblematiche alcune opere custodite nelle chiese di Crespano del Grappa, Galliera Veneta, Asolo. Gli altari maggiori di Galliera e Asolo, in particolare, evidenziano la compartecipazione di entrambe le botteghe, con l’esecuzione degli altari alla romana da parte di Pasi no e i marmorei Angeli adoranti usciti dalla bottega di Bernardi; marmi che di fatto ricalcano quelli, di qualità molto alta, nel duomo di Crespano.18 Tutte queste circostanze assumono un determinato valore allorché ci si appresti a commentare la scultura fittile attorno alla quale si articola questo saggio.
Si tratta di un Angelo adorante acefalo, privo delle ali e di una parte del braccio destro, integrato da un sensibile quanto rispettoso ‘restauro’ sul quale si ritornerà nel corso del testo19. La figura esce, nei suoi caratteri tipologici e formali, dal confronto diretto con il repertorio di Bernardi20. L’inclinazione del collo e la lieve torsione del busto indicano che l’angelo fosse destinato a rimanere sulla sinistra di chi guarda e che si accompagnasse a un secondo soggetto di speculare orientamento. Le braccia ritualmente incrociate sul petto, il contrapposto degli arti, il corpo efebico in lenta rotazione e la tunicella fissata su un fianco da un grazioso fermaglio a rosetta, a lasciare scoperta la coscia sinistra, enucleano agevoli ma parziali riscontri con le creature angeliche scolpite dal trevigiano per gli altari eucaristici di Saonara, Galliera Veneta e Crespano del Grappa21. La terracotta non individua però un rapporto univoco con nessuno dei numerosi Angeli adoranti di Bernardi e la pur innegabile filiazione non sortisce quella schietta interdipendenza che ci si attende tra opera finita e modello preparatorio. Ciò che diversamente connota questa scultura è anzitutto lo spirito più rigoroso e asciutto, la differente e più stringata concezione del drappeggio, laddove le opere documentate di Giuseppe o fondatamente attribuitegli palesano sempre un modo di panneggiare ancora di gusto barocco, più generoso e talvolta persino sovrabbondante, finalizzato a sortire efficaci effetti pittorici dai corpetti marezzati e dagli ondeggianti veli marmorei. Nessuno degli angeli del Torretti junior lascia in tale misura scoperte le membra, mentre la dipendenza dai suoi modelli è evidente nell’improvviso veleggiare della stoffa in corrispondenza della gamba sinistra, tanto da ricordare bene gli spacchi svolazzanti degli angeli poc’anzi menzionati.
La vicenda e la paternità della terracotta in parola si fanno di colpo chiarissime alla luce di un brano delle memorie di Canova scritte proprio da Iseppo Falier. Il biografo, testimone diretto dell’apprendistato nella bottega di Pagnano d’Asolo, riporta alcuni episodi altrimenti ignoti, non senza voler evidenziare i precoci progressi di Antonio. Egli ricorda ad esempio di aver ricevuto in dono dal giovanissimo amico, nonostante i “brevi istanti di studio” intercorsi, “due disegni tratti da gessi o modelli […] un Bacco ed una Venere […] eseguiti all’età non maggiore dei dodici anni”22. Segue dunque il passo che qui ci interessa. “Alcuni mesi appresso esso vi modellò in creta due Angeli con tanta facilità e con tale maestria, che ne stupì il suo institutore, e ne esultarono di compiacenza i parenti”. Tra i parenti cui Falier allude figurava in particolare il nonno Pasino, il cui coinvolgimento viene così minuziosamente precisa to: “Questi due modelletti” – prosegue il nobile veneziano in nota – “servirono di poi all’avo per iscolpire in pietra dura li due angeli dell’altar maggiore in Monfumo, come dicemmo”23. Ebbene la terracotta corrisponde in tutto – salvo che nella qualità tanto più elevata – alla scultura posta a sinistra dell’altare maggiore della chiesa di San Nicolò a Monfumo, incantevole borgo che si eleva su un colle tra Castelcucco e Asolo.
Scolpiti in pietra, gli Angeli si presentano in condizioni non ottimali, giacché nel 1934 furono rimossi e posti all’esterno, a guardia dell’accesso alla canonica; più volte traslati e finalmente ricondotti in chiesa, si cercò di porre rimedio ai danni cagionati con un’ancor meno felice verniciatura24. La durezza di esecuzione tradisce la mano di Pasino, poco avvezzo all’esecuzione di sculture di figura, tanto che il giudizio attorno ad esse è unanime e ha trovato spazio anche di recente per venire ribadito, poggiando del resto su una fonte molto attendibile25. Secondo la ricostruzione dei fatti operata da Falier, le terrecotte di Antonio andrebbero poste verso il tredicesimo anno di età, dunque nel 1770 circa. Le fonti attorno alle sculture lapidee a Monfumo non riservano dal canto loro elementi ben definiti e la memoria riportata da don Basso circa l’esecuzione nel 1763, tre anni dopo la conclusione della nuova fabbrica della chiesa26, riguarda con tutta verosimiglianza l’altare e non i successivi Angeli. A favore della tesi depongono ancora le memorie di Falier, il quale, nel delineare il profilo del nonno Pasino, riferisce all’avo le due figure in pietra e non l’altare medesimo, mentre gli ascrive senza tentennamenti gli altari di “Tiene, Galliera, s. Vito”27. Di fatto la struttura marmorea è difforme dalle opere di Pasino, tanto più intonate al classicismo del Massari, e se ciò è un chiaro indizio di due paternità distinte, è anche motivo per supporre un’esecuzione più tarda dei due Angeli.

La puntuale testimonianza di Falier, richiamata per la sua importanza anche recentissimamente28, si inscrive nell’assunto strettamente biografico delle sue memorie, la cui fondatezza è stata opportunamente evidenziata da Giuseppe Pavanello: “dar conto dei fatti, anche minuti della vita dell’artista”29. E ora, la scoperta di una delle due terrecotte non fa che confermare – semmai ce ne fosse bisogno – la validità di quella fonte storica, poiché quanto l’Angelo fittile implicitamente ci racconta ricalca esattamente la ricostruzione di Iseppo, con il burbero nonno che esulta “di compiacenza” per il nipote, al punto di tradurre nella pietra, come meglio gli riuscì, la giovanile ma già ragguardevole espressione d’arte plastica del nipote. La stretta aderenza ai fatti perseguita da Falier e l’attenzione accordata alle sole vicende “di prima mano, appoggiate su dati certi”30 si profilano del resto nette nel momento in cui egli si astiene dal riportare aneddoti romanzati o del tutto infondati riguardanti gli esordi dell’artista adolescente, come l’inverosimile “storiella del leoncino di burro” trasmessa dal Federici nelle sue Memorie Trevigiane31. L’esecuzione degli Angeli per mano di Pasino va ora interpretata e attentamente compresa sullo sfondo della biografia di Canova. Giusta l’indicazione di Iseppo, Antonio avrebbe modellato gli Angeli nel 1770 circa, al più nel 1771, ovvero poco prima del trasferimento a Venezia al seguito di Bernardi. Forse, se il giovane non avesse seguito il suo maestro in laguna, gli Angeli di Monfumo avrebbero potuto essere la prima prova di Antonio nella scultura monumentale; primato che compete, come ben sappiamo, a Euridice, voluta dal senatore Falier nel 1774, quella che lo scultore ricorderà nel 1787 come “La mia prima statua grande al vero”32.
Il silenzio dell’artista sulle precocissime terrecotte nelle “Note di Antonio Canova sulle proprie opere” non stupisce affatto. Vi sono qui enumerati i lavori dello statuario in senso stretto. Il significato dell’elenco viene chiarito dallo stesso artista, che vi esclude le Canestre di frutta scolpite per Daniele Farsetti; tanto meno avrebbe dunque fatto menzione dei piccoli Angeli fittili modellati nella sua adolescenza. Come è noto, il periodo antecedente la commissione di Euridice per la villa asolana è piuttosto instabile dal punto di vista dei riferimenti cronologici certi. Tutto dipende, per così dire, dall’effettivo inizio del discepolato presso Giuseppe Bernardi. A leggere le memorie dell’amico Iseppo, Antonio sarebbe stato al tempo un ragazzino di dodici anni e dunque egli avrebbe seguito il maestro a Pagnano nel 1769, subito dopo la commissione di Pradazzi. A favore di tale ancoraggio si esprime la vita di Antonio d’Este33, mentre l’anonimo Abbozzo di biografia e Melchiorre Missirini, che si basa su quelle note, ritardano di uno o due anni il registro dei tempi, collocando il contatto con Bernardi “all’età di 13, in 14 anni”34, dunque tra il 1770 e il 1771. I distinguo, seppur sempre rilevanti, non sono tuttavia pregiudizievoli nel caso qui discusso ed è fuori dubbio che ci troviamo di fronte alla prima opera di Canova, eseguita che l’avesse a tredici o a quattordici anni, dopo un anno di garzonato che lo aveva visto crescere “senza far prima i soliti studi”35, vale a dire non già sulla base di una formazione accademica. È nella polverosa bottega di Pagnano che Antonio “cominciò a lavorare alcuna cosa in rilievo sui modelli del Torretti”, come precisa Melchiorre Missirini36 con un commento che delinea l’esatto perimetro della terracotta ritrovata.
Quello che si presenta ai nostri occhi è un Canova giovanissimo, che esprime se stesso rielaborando con intelligenza e personalità gli insegnamenti del suo maestro. Lungi da proporre un mero imparaticcio, Antonio rinnova un cliché della bottega di Pagnano con una certa indipendenza, forse ancora acerba ma già intrisa di quella sensibilità che connoterà le statue scolpite per il Falier, in ogni caso ben lontana dall’asprezza tecnica e formale di Pasino. Intendo dire che vi si colgono senz’ombra di dubbio i riflessi della formazione asolana, eppure la più asciutta, snella concezione anatomica e la foggia dei panni, privi dell’esuberanza un po’ ricercata e ridondante di Bernardi, evidenziano un orizzonte ben più essenziale e concentrato, presago dei futuri sviluppi veneziani. Il tratto levigato dell’anatomia, il placido fluire della stoffa, priva di pittoricismi a effetto, una certa dilatazione della mano sinistra, sono tutti aspetti che evidenziano i connotati e la personalità del giovanissimo artista.
Tali caratteri sembrano inoltre rivelare un dialogo con quell’indirizzo della scultura veneta del XVIII secolo improntato a una precoce fascinazione per l’antico e destinato a riversare benefici, seppur indiretti effetti anche sullo scultore di Possagno37. Mi chiedo, più nello specifico, se nell’Angelo canoviano non vada scorta qualche suggestione dai marmi di Antonio Gai e soprattutto di Giovanni Marchiori – ad esempio dagli Angeli adoranti del secondo a Corbanese e a Sant’Ambrogio di Fiera38 – vale a dire dei due più importanti esponenti di quella colta corrente classicista della scultura lagunare. Le numerose e sempre altissime opere di Marchiori, disseminate anche nel Trevigiano, erano tutto sommato accessibili a un brillante e curioso giovane artista come Canova e non dovettero essergli indifferenti, a giudicare dal ritmo dell’Angelo adorante, ricettivo della lezione di Bernardi, ma ben più rigoroso e pacato. L’indole composta dello scultore, non troppo persuaso dalla “grazietta” del maestro, traspare, per mediazione di Antonio, anche nelle versioni in pietra di Pasino. Pur tenendo presente l’impietosa semplificazione e i limiti delle statue di Monfumo, l’Angelo a destra, del quale manca il modello canoviano da cui deriva, si rapporta senza dubbio ai prototipi di Bernardi. Le braccia scostate dal petto, le mani giunte e gli spacchi che si aprono sopra le ginocchia ci riportano agli Angeli adoranti di Saonara, Asolo e Crespano, eppure spicca un’indubbia autonomia di soluzioni nell’attillato corpetto che lascia scoperte le spalle e nel più stringato sviluppo del panneggio. La continuità con il Bernardi si profila chiarissima anche dal punto di vista della tecnica esecutiva della terracotta. È persino ozioso osservare che non ci troviamo di fronte ai minuti bozzetti del Canova maturo, alle istantanee composizioni destinate a fissare nulla più che la prima idea figurativa in vista dei grandi e sorvegliati modelli in gesso39, bensì al tipo di modello fittile proprio della scultura veneta del Settecento, ben rappresentato dalle molteplici prove lasciate in tal campo da Giovanni Maria Morlaiter40 e da quanto lo stesso Bernardi aveva appreso dallo zio Giuseppe Torretti.41
Giusta l’indicazione delle fonti, sarà proprio questa la strada che Canova seguirà anche per plasmare i modelli preparatori a metà del vero di Orfeo ed Euridice, eseguiti nella casa di Possagno.42 Sembra davvero opportuno evidenziare che l’aurorale momento cui questa primizia canoviana appartiene si pone tutto sotto l’insegna della più alta tradizione veneta rappresentata dal precettore trevigiano. Per Canova non sono ancora i mesi trascorsi a frequentare la scuola del nudo dell’Accademia, quando si concretizzerà l’importante rapporto con il pittore Giambattista Mengardi, né quelli della nevralgica conoscenza dei prototipi della statuaria classica della collezione di Filippo Farsetti. Si spiega sotto questa luce la specificità dell’Angelo fittile, la sua singolarità di orizzonte nell’iter del giovane scultore. Un abisso lo separa, sul piano culturale, non solo dall’innovativo gruppo di Dedalo e Icaro, ma anche dalle statue di Orfeo ed Euridice, così consce nel loro rapportarsi con intelligenza ai modelli del Mengardi e nel declinare, in modo del tutto nuovo, il pittoricismo della scultura veneziana, a vantaggio di un impianto volumetrico nitido.43 Tuttavia, l’opera qui presentata non rimane isolata in un’accezione restrittiva e pregiudicante, poiché possiamo scorgervi, nella tornitura delle membra, nel fluire delicato dei passaggi tonali, nella definizione sensibile del piede destro, incoraggianti affinità con le prime opere note dell’artista.
La struttura anatomica dell’Angelo, dalla vita alta e i fianchi arrotondati, presagisce in maniera significativa la figura di Euridice, uscita dallo scalpello di Canova nel 1774. In modo analogo l’Apollo delle Gallerie dell’Accademia a Venezia – la terracotta modellata dallo scultore di Possagno nel 1778 per una delle statue destinate alla villa di Ludovico Rezzonico a Bassano del Grappa e donata dallo stesso artista all’Accademia nell’aprile 177944 – benché sia un saggio più maturo, che ci parla anche delle suggestioni berniniane giunte a Canova dalla collezione Farsetti, rivela in controluce ancora tracce di continuità con il suo esordio. Ma è evidente che sia la statua scolpita per il Falier, sia l’Apollo all’Accademia rappresentano ormai il giro di boa e si lasciano alle spalle la determinante influenza ricevuta dal Bernardi che invece innerva l’Angelo di terracotta. La solidità e la persistenza dell’orizzonte del primo maestro nella mente di Canova giovinetto sono dimostrabili non solo tramite le attestazioni delle fonti, ma anche attraverso stretti legami con le sue opere.
Si è discussa l’attinenza del nostro Angelo ai marmi di Torretti junior, è ora il caso di approfondirne la pertinenza rispetto alle terrecotte del maestro, un aspetto che restituisce piena contezza del suo bagaglio formativo e tecnico. Per centrare tale obiettivo si presenta l’opportunità di commentare due interessanti sculture fittili di Giuseppe Bernardi scoperte e già discusse in un diverso contesto dallo scrivente45. Farne ora oggetto di analisi, a confronto della prima prova canoviana, ha molteplici significati, tanto più se si considera che esse condividono la stessa provenienza dell’Angelo adorante e al par suo mostrano un successivo intervento di ripristino e di patinatura biancastra imputabile alla stessa mano, di cui a breve si dirà. Va inoltre tenuto presente che allo stato attuale delle conoscenze non sono noti altri modelli o bozzetti certi del Bernardi. È infatti inevitabile espungere dal suo catalogo le enfatiche e grezze terrecotte raffiguranti gli Evangelisti al Birmingham Museum of Art46, presunti modelli per le statue in Santa Maria della Fava, che in realtà rivelano solo superficiali tangenze compositive e nessun vero addentellato di stile con lo scultore di Pagnano.

Acefala, la prima terracotta di cui ora si tratta rappresenta San Giovanni Battista47, come si deduce dalla caratteristica, grezza veste di pelle di cammello. Fermata appena sotto la vita, essa lascia scoperto il fianco destro, mentre ne ricopre la spalla sullo stesso lato, scendendo solennemente drappeggiata fino a terra. La sintassi compositiva delle membra è piuttosto simile a quella dell’Angelo adorante, con le braccia incrociate sul petto: del sinistro rimangono solo le falangi di alcune dita aderenti al busto. Il contrapposto degli arti inferiori è discreto, quasi a suggerire l’incedere grave del santo, con una visione essenzialmente frontale che contrasta con la leggera torsione del busto. La terracotta è il modello preparatorio del San Giovanni Battista che adorna, assieme a una seconda statua raffigurante San Benedetto l’altare maggiore della chiesa di San Giovanni Evangelista a Travettore, nei pressi di Rosà. Sappiamo ben poco sul conto di questi marmi, che non hanno alcuna relazione con il tempio neogotico eretto tra il 1912 e il 1926 e che completano un altare pure novecentesco.48 Se l’evidente provenienza erratica delle statue non fornisce alcun sostegno per delinearne la vicenda materiale e l’origine, pare un indizio significativo la prossimità a Rosà, di cui Travettore è frazione, dove Giuseppe Bernardi operò molto intensamente. I burberi Sant’Antonio abate e San Spiridione ai lati dell’altare maggiore del duomo, commissionati al trevigiano il 30 luglio 176349, esibiscono affinità con quelli di Travettore, sia nella concezione aulica e solenne, particolarmente evidente nei paramenti episcopali di San Benedetto, sia nel timbro corrucciato dei volti incorniciati da barbe anguiformi. Insistono evidenti addentellati formali e tipologici anche con la statua di San Paolo a Resana, caratterizzato dalla stessa densità emotiva, con l’improvvisa rotazione del capo e la mimica delle braccia allineate al petto. La fierezza espressiva del Precursore – pregna di quegli umori neocinquecenteschi che nel Settecento connotano gli scultori veneziani di orientamento classicista50, in special misura Giuseppe Torretti, zio del Bernardi – e le chiome gonfie, intensa mente traforate, evidenziano del resto stringenti analogie con gli Angeli adoranti di Crespano del Grappa, scolpiti nel 1762, convincendoci che anche i marmi a Travettore appartengono alla più avanzata produzione di Bernardi.
Ci troviamo alla fine del settimo decennio, quando Canova già frequentava la bottega del maestro, il che non solo motiva le fortissime assonanze dell’Angelo fittile con il Battista, nella foggia della veste molto scosciata, ma stabilisce un altro concreto riferimento per l’invenzione del giovanissimo Antonio. L’ultimo e più ammalorato bozzetto del gruppo, privo non solo della testa ma anche della base e dei piedi, raffigura Apollo51, come indica la cetra sulla quale il nume della musica e della poesia poggia la mano sinistra. Va osservato che l’appiattimento della parte posteriore e la finitura bianca combaciano con la figura di San Giovanni Battista, laddove l’Angelo canoviano tende invece a sviluppare meglio il panneggio anche a tergo, mostrando altresì una diversa rifinitura della parte posteriore, meno scabra e percorsa da lunghi solchi paralleli. Senza ignorare, poi, che l’Angelo di Canova adolescente manifesta un ductus più pacato, mentre Apollo, proprio come il Precursore, esprime un tratto più nervoso e svelto, che ci parla della maturità e della lunga esperienza del maestro.
Sul piano dei confronti, meno agevoli per via del più limitato catalogo di Bernardi nell’ambito della plastica da giardino, sono comunque significativi sia i richiami alle statue di Pradazzi d’Asolo, la cui conoscenza è oggi almeno in parte risarcita, sia alle figure allegoriche a Gatchina, per l’affiorare di quel drappeggio minuto e aggraziato, oltre che per l’impianto largo e l’anatomia soda ma rilassata. Se non è da escludere che la terracotta sia il modello preparatorio dell’Apollo scolpito per il senatore Falier, ancora non rintracciato, ci troviamo in ogni caso al volgere del settimo decennio del Settecento, verosimilmente poco prima del definitivo rientro di Bernardi a Venezia. Tale circostanza sembra contribuire a spiegare il motivo per cui due terrecotte di Giuseppe abbiano seguito lo stesso destino di un lavoro giovanile di Canova, eseguito proprio negli anni del suo discepolato all’interno della bottega del maestro. Giungiamo così a toccare un punto che suscita la massima attenzione, ovvero l’integrazione plastica che interessa, nell’Angelo adorante e nel San Giovanni Battista, i basamenti52 e le aree che avrebbero potuto compromettere la stabilità delle figure, soprattutto del primo: il polpaccio e il piede sinistro, la spalla destra, i punti di innesto delle ali. Questo rispettoso e singolare intervento di ‘restauro’, che non va a risarcire le mancanze più evidenti – testa, braccia, mani – mostra i tratti peculiari di Canova nella piena maturità e indirizza a palmari comparazioni con numerosi bozzetti autografi53. La disinvolta, fulminea prestezza della stecca e delle dita sul materiale umido, il ductus grondante e quasi organico che abbrevia e affusola l’anatomia del piede sono di fatto quelli che connotano l’istantaneo bozzetto delle Tre Grazie del Museo civico di Bassano del Grappa, del 181254.
Ma raffronti altrettanto istruttivi potranno essere istituiti con l’area tergale dell’allegoria della Pittura nel Monumento a Tiziano a Possagno o con l’Ettore in gesso al Museo Correr, modellato a partire dal 180855. L’ Angelo adorante, primizia documentata dell’artista, profila pertanto un caso affatto singolare – o meglio unico – di Canova che restaura se stesso a distanza di decenni. Possiamo credere che egli abbia ripreso tra le mani e accarezzato quelle terre – nate con lo sbocciare del suo talento e che avevano molto da rammentargli – allorché fece ritorno a Possagno nel luglio 1819 per la posa della prima pietra del Tempio56. Dove, se non nella casa natale di Possagno, potevano essere custoditi gli Angeli adoranti, dopo l’impiego fattone dal nonno Pasino per le statue di Monfumo? Certo non è documentato il passaggio di due modelli di Giuseppe Bernardi da Pagnano a Possagno, nelle mani di Canova, ma il ripetersi di quel lieve ‘restauro’ sulla figura del Precursore e l’identica provenienza ne sono il riscontro più eloquente. La casa dei nonni e del padre, la sua casa, è lo scenario in cui prende vita, in un istante, l’amorevole salvaguardia di alcuni frammenti della giovinezza. In tale atto è quasi il senso profondo dell’indole dell’uomo, se è vero che “non ci fu forse artista più devoto e legato ai luoghi d’origine di Antonio Canova”.57

Nello scultore che raccoglie le spoglie vive del passato e si fa custode delle proprie radici si effonde il messaggio trasmesso con le sue ultime volontà, tutte protese al perfezionamento del Tempio di Possagno, ciò che avrebbe fatto grande il piccolo paese natale: “questo è il segno e il significato della mia opera, di qui sono partito, qui tra voi ritorno”58. Partire e ritornare. Un ritorno che non è fisico, o non soltanto, al quale Antonio vincola la comprensione della sua esistenza e del suo cammino di artista. La terracotta modellata nell’adolescenza diventa in fondo essa stessa metafora di questo tracciato circolare che congiunge esordio e punto di arrivo, partenza e ritorno. L’Angelo assomma in sé il Canova veneto, figlio della sua terra e il Canova ‘universale’, padre del suo tempo, l’ultimo gigante dell’arte italiana.
Ndr. Il presente studio, scaturito dell’expertise chiesta all’autore dalla Galleria Gomiero in occasione del ritrovamento dell’opera in questione, è stato originariamente pubblicato in Arte Veneta 80/2023, Electa, 2024, pp. 246 e seg.
1 G. Pavanello, L’elogio di un “uomo veramente perfetto”, in G. Falier, Me morie per servire alla vita del marchese Antonio Canova [1823], ed. anastatica a cura di G. Pavanello, Bassano del Grappa 2000, pp. XVIII-XIX.
2 Sul rapporto tra biografo e biogra fato si veda R. Pancheri, Iseppo Falier, amico e biografo di Canova, in G. Falier, Memorie per servire, cit., pp. XXIII-XLV.
3 P.A. Paravia, Notizie intorno alla vita di Canova, Venezia 1822.
4 G. Falier, Memorie per servire, cit., p. 8.
5 G. Pegoraro, “…Antonio Canova, nati vo di Possagno nel Triviggiano…”, in Ca nova, catalogo della mostra (Bassano del Grappa, Museo Civico; Possagno, Gipsoteca), a cura di S. Androsov, M. Guderzo e G. Pavanello, Ginevra-Mi lano 2003, pp. 45-47; E. Catra, in Ead., V. Pajusco, Antonio Canova nel Veneto. Itinerari, Venezia 2022, p. 55, cat. 7; F. Leone, Antonio Canova. La vita e l’ope ra, Roma 2022, pp. 19-20.
6 A. Canova, Scritti, I, a cura di H. Ho nour, P. Mariuz, ed. Roma 2007, p. 332. In merito alle sculture di Pasino si veda il prosieguo del testo e in parti colare la nota 25.
7 G. Falier, Memorie per servire, cit., p. 8.
8 A. Massari, Giorgio Massari architet to veneziano del Settecento, Vicenza 1971, p. 88.
9 M. De Grassi, in Canova, cit., p. 356, cat. IV.2.
10 A. Muñoz, Il periodo veneziano di Antonio Canova e il suo primo maestro, “Bollettino d’arte del Ministero della Pubblica Istruzione”, 18, 1924 1925, pp. 105-107; secondo l’autore le quattro coppie raffiguravano “Diana e Endimione, Ercole e Onfale, Apollo e Dafne, e altre due statue di cui non mi è parso chiaro il soggetto; mentre in altra parte del giardino vi è il gruppo di Elena e Paride”.
11 Casa d’aste Il Ponte, Milano, 28 marzo 2023, lotti 17, 129-131. Indi pendentemente da chi scrive, le opere di Bernardi sono state individuate da Monica De Vincenti, che ne darà pros sima comunicazione. Dopo la conse gna del presente testo alla redazione (aprile 2023), il ritrovamento è stato reso pubblico da G. Pavanello, Statue del giardino di villa Falier ai Pradazzi di Asolo transitate in asta a Milano, “Ric che minere”, 19, 2023, pp. 167-171.
12 C. Semenzato, Giuseppe Bernardi detto il Torretto, “Arte Veneta”, 12, 1958, pp. 174-175; Id., La scultura veneta del seicento e del settecento, Venezia 1966, pp. 65, 139-140, figg. 216-218.
13 Si veda, oltre alla bibliografia già menzionata, M. Klemenčič, Giuseppe Bernardi, in La scultura a Venezia da Sansovino a Canova, a cura di A. Bac chi con la collaborazione di S. Zanuso, Milano 1999, pp. 695-696. Significati vo anche il confronto delle statue Fa lier con i Nobiluomini in veste di giar dinieri e di cacciatori in villa Pisani a Stra, per le quali Bernardi ricevette un pagamento nel 1769. Si veda S. Guer riero, in Per un Atlante della Statuaria Veneta da Giardino, a cura di M. De Vincenti e Id., “Arte Veneta”, 65, 2008, pp. 280-283.
14 A. Massari, Giorgio Massari, cit., pp. 88-89. Secondo lo studioso, che si av valeva di fonti non specificate, le ope re del Bernardi Torretti sarebbero sta te in numero ancora superiore. Lungo il viale egli registra un’altra coppia di statue, Bacco e Arianna (forse proprio quelle che a Muñoz parvero non age volmente identificabili), mentre sui pi lastri dei cancelli d’entrata si elevava no le allegorie delle Quattro stagioni. Non è da escludere che queste ultime spettassero a una mano diversa, forse allo zio Giuseppe Torretti, visto che lo stesso Falier (Memorie per servire, cit., p. 5) accenna a “parecchie sculture dei bravi Artisti [Torretti zio e nipote]”.
15 G. Falier, Memorie per servire, cit., p. 9, nota 2.
16 C. Semenzato, Giuseppe Bernardi, cit., pp. 175-176.
17 G. Falier, Memorie per servire, cit., p. 9.
18 Si rimanda a C. Semenzato, La scultura, cit., pp. 139-140; A. Massari, Giorgio Massari, cit., pp. 35, 67-68; G. Pegoraro, “…Antonio Canova, nativo di Possagno nel Triviggiano…”, in Canova, cit., pp. 45-48.
19 La terracotta, alta 33,4 cm, è rico perta da una vernice di tonalità rosa cea affine al colore della terracotta e presenta estese tracce di cera scura in corrispondenza dei fianchi.
20 La percezione di tali caratteri tipo logici sta alla base dell’attribuzione inizialmente formulata da chi scrive in favore di Bernardi “nonostante la ter racotta non sia esattamente rapporta bile a nessuna delle opere di Giusep pe” (G. Sava, “Abbozzare con fuoco ed eseguire con flemma”. Antonio Canova e tre terrecotte di Giuseppe Bernardi, in Canova tra innocenza e peccato, cata logo della mostra [Rovereto, MART], a cura di B. Avanzi e D. Isaia, Rovereto 2021, p. 46).
21 L’articolazione delle braccia è in particolare desunta dall’Angelo sini stro nel duomo di Crespano del Grap pa – quello posto a destra dell’altare maggiore di Saonara inverte la so vrapposizione delle braccia – mentre dall’Angelo destro di Galliera Veneta deriva la foggia della rosetta in corri spondenza degli spacchi.
22 G. Falier, Memorie per servire, cit., p. 10.
23 Ibidem.
24 M. Basso, Monfumo. La storia, i luo ghi, le opere, Asolo 2002, p. 18.
25 Si veda M. Pavan, Canova, Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, 18, Roma 1975, p. 197; G. Pavanello, L’elo gio di un “uomo veramente perfetto”, in G. Falier, Memorie per servire, cit., p. XI; M. Basso, Monfumo, cit., p. 18; G. Pego raro, “…Antonio Canova, nativo di Possa gno nel Triviggiano…”, cit., p. 46; E. Catra, in Ead., V. Pajusco, Antonio Canova, cit., p. 55, cat. 7; F. Leone, Antonio Canova, cit., p. 24. Il ductus coriaceo degli An geli manifesta affinità con il Busto di Madonna a rilievo in villa Falier a Pra dazzi, tradizionalmente assegnato al nonno: A. Muñoz, Il periodo veneziano, cit., pp. 104, 122. Una “piccola Madonna di marmo” di Pasino è inoltre testimo niata da Antonio d’Este in casa Canova: A. d’Este, Memorie di Antonio Canova, Firenze 1864, p. 2.
26 M. Basso, Monfumo, cit., p. 18.
27 G. Falier, Memorie per servire, cit., p. 8.
28 “two angels in clay that later served Pasino in carving the decorations for the high altar of a church” (C.D. Dick erson II, E. Bowyer, A passion for clay, in Canova. Sketching in clay, catalogo della mostra [Washington, National Gallery; Chicago, Art Institute], a cura di Iid., Chicago 2023, p. 18).
29 G. Pavanello, L’elogio di un “uomo ve ramente perfetto”, cit., p. XXI.
30 Ibidem.
31 D.M. Federici, Memorie trevigiane sulle opere di disegno. Dal mille e cento al mille ottocento per servire alla storia delle belle arti d’Italia, II, Venezia 1803, p. 193; G. Pavanello, L’elogio di un “uomo veramente perfetto”, cit., p. XIII. Sulla va sta eco figurativa oltre che letteraria di questo episodio mitizzato si veda G. Pavanello, L’ultima leggenda: il leone di burro, in Canova gloria trevigiana. Dalla bellezza classica all’annuncio romantico, catalogo della mostra (Treviso, Musei Civici), a cura di F. Malachin, Crocetta del Montello 2022, pp. 31-45.
32 È l’elenco stilato dall’artista nel 1787, ovvero le “Note di Antonio Ca nova sulle proprie opere”: A. Canova, Scritti, cit., p. 260.
33 A. d’Este, Memorie di Antonio Cano va, cit., p. 5. Il fedele allievo fissa l’inizio del garzonato “nel novembre 1768 o 1769”.
34 A. Canova, Scritti, cit., p. 332; M. Mis sirini, Vita di Antonio Canova Libri quat tro, a cura di J. Bernardini, Roma 2016, p. 47. Propende per l’inizio dell’appren distato nel 1770-1771 F. Leone, Antonio Canova, cit., p. 20.
35 A. Canova, Scritti, cit., p. 332.
36 M. Missirini, Vita di Antonio Canova, cit., p. 47.
37 Si veda a questo proposito M. De Grassi, L’antico nella scultura veneziana del Settecento, in Antonio Canova e il suo ambiente artistico fra Venezia, Roma e Parigi, a cura di G. Pavanello, Venezia 2000, pp. 35-69; M. De Vincenti, “Piace re ai dotti e ai migliori”. Scultori classicisti del primo ’700, in La scultura veneta del Seicento e del Settecento. Nuovi studi, atti della giornata di studio (Venezia, 30 novembre 2001), a cura di G. Pavanello, Venezia 2002, pp. 221-281 (in part. pp. 239-248); S. Guerriero, M. De Vincenti, La scultura. Antonio Gai, in Lettere arti stiche del Settecento veneziano, 6, Anton Maria Zanetti di Girolamo. Il carteggio, a cura di M. Magrini, Verona 2021, pp. 211-225.
38 Si veda S. Guerriero, Nuove propo ste per Giovanni Marchiori (1696-1778), in Francesco Robba and the Venetian Sculpture of the Eighteenth Century, atti del convegno internazionale (Lubiana, 16-18 ottobre 1998), a cura di J. Höfler, Lubiana 2000, pp. 127-132.
39 D’obbligo il rimando a H. Honour, Dal bozzetto all’“ultima mano”, in An tonio Canova, catalogo della mostra (Venezia, Museo Correr), a cura di G. Pavanello e G. Romanelli, Venezia 1992, pp. 33-43; inoltre H. Honour, Canova’s Work in clay, in Earth and Fire. Italian Terracotta Sculpture from Donatello to Canova, catalogo della mostra (Hous ton, The Museum of Fine Arts; Londra, Victoria and Albert Museum), a cura di B. Boucher, New Haven 2001, pp. 67-81. Si veda ora su questi aspetti C.D. Di ckerson II, E. Bowyer, A passion for clay, cit., pp. 9-47.
40 Si veda in proposito M. De Vincen ti, Catalogo del “fondo di bottega” di Giovanni Maria Morlaiter, “Bollettino dei Musei Civici Veneziani”, 6, 2021, pp. 12-77.
41 Come si può ad esempio evincere dalla terracotta di Giuseppe Torretti raffigurante Sant’Andrea, modello per la statua nella basilica di San Giorgio Maggiore a Venezia: M. De Vincen ti, L’“ingegnosissimo Torretti scultore”. 1664-1743, in Revixit: un capolavoro intagliato di Giuseppe Torretti restaura to da Venetian Heritage, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Grimani), a cura di M. Clemente e M. De Vincenti, Venezia 2020, pp. 24-25.
42 Come narra con abbondanza di dettagli M. Missirini, Vita di Antonio Ca nova, cit., p. 50. Si veda su questi fatti F. Leone, Antonio Canova, cit., p. 31.
43 Per le relazioni con Mengardi e le as sonanze tra Orfeo e la Cacciata di Caino dipinta da Giambattista nei primi anni settanta a Campagna Lupia si veda F. Leone, Antonio Canova, cit., pp. 32-33.
44 Come è noto, le statue non furono mai compiute e le uniche sbozzate, furono poco dopo distrutte. Sull’Apollo si veda G. Pavanello, in Antonio Canova, cit., p. 159, cat. 77; F. Leone, Antonio Canova, cit., pp. 40-41; C.D. Dickerson II, E. Bowyer, A passion for clay, cit., p. 22.
45 G. Sava, “Abbozzare con fuoco ed ese guire con flemma”, cit., pp. 45-49.
46 C.D. Dickerson II, E. Bowyer, A pas sion for clay, cit., pp. 18-19. 47 La terracotta è alta 31,8 cm.
48 È possibile che le statue fossero state procurate dai nobili Gino e Maria Zanchetta, munifici sostenitori della chiesa, come ricorda il monumento eretto nel 1946 all’interno del tempio.
49 G. Mantese, Rosà. Note per una sto ria, Vicenza 1977, pp. 224-225.
50 M. De Grassi, L’antico nella scultura veneziana, cit., pp. 35-69; M. De Vincen ti, “Piacere ai dotti e ai migliori”, cit., in part. pp. 223-224, 228-236. L’articola zione della figura sembra evidenziare peraltro anche il ricordo di Antonio Tarsia, scultore a cui fu intimamente legato Giuseppe Torretti. 51 Altezza 23,5 cm.
52 Lo stato di maggior lacunosità in cui versa la figura di Apollo, privo di base e piedi, motiva verosimilmente l’assenza dell’intervento ottocentesco, sempre che questo non sia andato perduto in un secondo tempo.
53 Insostituibile in proposito H. Ho nour, Dal bozzetto all’“ultima mano”, cit., pp. 33-44; Id., Dal bozzetto al l’“ultima mano”, in Canova, cit., pp. 21 29. Sui bozzetti canoviani si veda ora il catalogo della mostra di Washington Canova. Sketching in clay, cit.
54 Si veda G. Ericani, Il primo bozzetto delle Tre Grazie, in Canova, cit., pp. 31 35; Io, Canova genio europeo, catalo go della mostra (Bassano del Grappa, Musei Civici), a cura di M. Guderzo, B. Guidi e G. Pavanello, Cinisello Balsa mo 2022, p. 274, cat. 122; C.D. Dicker son II, E. Bowyer, A passion for clay, cit., p. 41.
55 Sul bozzetto di Possagno (n. 70), del 1790-1795 e più in generale sulle pecu liarità esecutive delle terrecotte cano viane si rimanda al recentissimo saggio di A. Sigel, Reading Canova’s hand, in Canova. Sketching in clay, cit., pp. 223 241 (in particolare pp. 235-241; fig. 30 a p. 237). In relazione all’Ettore si veda G. Pavanello, in Antonio Canova, cit., p. 178, n. 92 e da ultimo C.D. Dickerson II, E. Bowyer, A passion for clay, cit., pp. 13, 38.
56 P.A. Paravia, Notizie intorno, cit., p. 44.
57 G. Pegoraro, “…Antonio Canova, nativo di Possagno nel Triviggiano…”, cit., p. 47.
58 Ivi, p. 45.
19 Novembre 2025